La tassa sugli extraprofitti bancari, le accette e la demagogia

La tassa sugli extraprofitti bancari, nella forma immaginata dal governo, colpirebbe tutti in modo indiscriminato e con esiti incerti

Palazzo Chigi, residenza della presidente del Consiglio dei ministri © Simone Ramella/Flickr

Un principio giusto, un modello sbagliato, uno strumento inadeguato, degli esiti incerti. La volontà espressa dal governo italiano di tassare gli extraprofitti incassati dalle banche in virtù della situazione economico-finanziaria contingente non è neppure stata battuta dalle agenzie che già è diventata una bandiera per alcuni esponenti della maggioranza. La realtà, però, è molto più complessa. 

Partiamo dal “principio”, dunque. Che gran parte del mondo finanziario (e dunque anche delle banche) viva di storture, di bulimia, di speculazione fine a sé stessa che non soltanto non concede nulla all’economia reale ma vi fa incombere rischi enormi è un dato di fatto che neppure il più fervido sostenitore del liberismo può contraddire. Altrimenti vorrebbe dire che la crisi del 2008 non ci ha insegnato assolutamente nulla. 

Un principio giusto, ma applicato in modo sbagliato

Quindici anni fa le spinte speculative hanno portato una nazione intera sull’orlo del fallimento. Dopo il crollo di Lehman Brothers provocato dallo scandalo dei mutui subprime e sfruttando prodotti finanziari più pericolosi e meno regolamentati, i derivati, in tanti nel mondo della finanza si sono arricchiti a dismisura scommettendo sul debito sovrano della Grecia. E, anche per via dell’imperizia di troppi dirigenti di Atene, hanno portato la nazione europea ad un tasso d’indebitamento folle, a dover accettare d’urgenza prestiti a condizioni durissime pur di non dichiarare default, a dover imporre misure di austerità socialmente drammatiche.  Ad Atene, per un paio di inverni consecutivi, buona parte della popolazione non aveva di che scaldarsi. Nel cuore dell’Europa. Nel Terzo millennio. 

Colpire quelle pratiche, cambiare paradigma, imporre regole che impediscano di “generare” crisi a ripetizione, e anche recuperare parte del “maltolto” era necessario prima del 2008, lo è stato dopo e lo è ancora oggi. E sì, la leva fiscale (assieme alle regole, nazionali e internazionali) può rappresentare uno strumento utile per garantire una redistribuzione laddove – in qualunque settore dell’economia o della finanza – vi siano accumuli di capitali troppo elevati. È un principio sancito di fatto anche dalla nostra Costituzione, nel momento in cui impone la progressività delle imposte. Ma è anche il buon senso a determinarlo: se c’è chi muore di fame è giusto chiedere a chi ha di più di dare di più. 

Un modello privo dei necessari distinguo: tassazione “lineare” ad aliquota unica

A balzare agli occhi, però, in questo caso, è la “linearità” che è stata scelta dal governo. La tassa sulle banche ipotizza infatti un’aliquota unica, pari al 40%, applicata quando il margine di interesse (la differenza tra interessi attivi e passivi) registrato nel 2022 “eccede per almeno il 3%” il valore dell’esercizio 2021. E se lo fa per almeno il 6%, nel 2023, rispetto al 2022.

La “linearità” è in questo senso di fatto una totale mancanza di perequazione. È questo, dunque, il “modello” apparentemente scelto dall’esecutivo guidato da Giorgia Meloni: tagliare con l’accetta senza fare alcun distinguo. Immaginate se una piccola banca avesse deciso, autonomamente, per tutelare i propri clienti e in un’ottica – appunto – redistribuiva, di destinare parte dei propri profitti non redistribuiti a “calmierare” le rate dei mutui. A porre perciò un argine, a vantaggio dei risparmiatori e a proprio svantaggio (degli interessi meramente pecuniari della banca stessa).

Immaginate se quello stesso istituto di credito fosse una realtà fondata su un’attitudine cooperativa nelle proprie attività, improntata alla creazione di valore sul territorio, rifiutando ogni tipo di speculazione. Ebbene, secondo la norma fin qui indicata dal governo e poi “emendata” dal ministero dell’Economia, dovrebbe risultare tassata nello stesso identico modo in cui lo sarebbe una banca che non ha fatto nulla per tutelare il risparmio e che magari è allegramente dedita a speculare su ogni tipo di mercato, mettendo a rischio i sistemi economici, la stabilità finanziaria internazionale e, dunque, la sicurezza degli stessi piccoli risparmiatori. 

Un impianto che non tiene in considerazione la dimensione e le attività degli istituti di credito

In secondo luogo, a mancare completamente è ogni tipo di distinzione in termini di dimensioni. È stranoto, ormai, che gli istituti ipertrofici rappresentino una minaccia per la stabilità finanziaria internazionale: non a caso vengono chiamati “too big to fail”, troppo grandi per fallire. Ha senso chiedere che loro paghino nella stessa misura proporzionale delle piccole e piccolissime realtà, presenti magari con poche filiali, su un piccolo territorio? E che, appunto, in passato non hanno sfruttato storture e vuoti legislativi per garantirsi vergognosi margini di profitto e diventare più grandi? E no, non è un ragionamento radicale: anche negli ultra-liberisti Stati Uniti le regole per le banche più grandi sono particolari, diverse, più stringenti, a partire dalla vigilanza esercitata dalle autorità di controllo. 

C’è poi il concreto rischio che una manovra centrata proprio su un aspetto specifico, quello relativo alle modalità di erogazione dei prestiti (o per lo meno ad un parametro ad essi strettamente collegato), possa di fatto invitare le stesse banche tassate a preferire altri tipi di business. In altre parole, se diventa più onerosa la concessione dei prestiti, meglio concentrarsi su altro. Magari proprio, di nuovo, le attività speculative. 

Perché non tassare seriamente le transazioni finanziarie, colpendo la speculazione?

Proviamo però a dare credito al governo. Escludiamo che possa esserci qualsivoglia volontà “populista” nella proposta avanzata e contenuta nel decreto. Se davvero si voleva “recuperare il maltolto” dal sistema finanziario, perché non si è scelto di riproporre una tassa sulle transazioni finanziarie seria, come per anni e anni proposto da numerose organizzazioni non governative (nonché dai soggetti che in Europa e non solo fanno finanza in modo etico)? 

Quella tassa, è utile ricordalo, ipotizzava un piccolissimo prelievo pari allo 0,05% sulle transazioni effettuate sui mercati finanziari. All’epoca, si discusse a lungo sia sulla base imponibile (solamente alcuni tipi di transazioni? Solamente su alcuni mercati?) e sulla stessa aliquota (0,05%? 0,01%? 0,1%?). Fu perfino avviata una cooperazione rafforzata tra alcune nazioni europee per tentare di adottarla. Ma salvo pochi casi annacquati, la proposta nei termini in cui era stata avanzata inizialmente non ha mai visto la luce. 

Eppure quella avrebbe consentito di ottenere, con una percentuale infinitamente più piccola rispetto al 40% ipotizzato dal governo, un flusso di cassa stimato dalla Commissione europea in oltre 50 miliardi di euro all’anno. All’anno: perché a differenza di questa proposta governativa, la tassa sulle transazioni finanziarie avrebbe rappresentato un intervento strutturale e non una tantum (sorvolando sul fatto che, stando alle prime indicazioni, il governo vorrebbe finanziare con i proventi della tassa bancaria voci ordinarie di bilancio, il che rappresenta un salto nel buio, un rischio e un paradosso macroeconomico). E avrebbe agito proprio come argine alla speculazione.

Uno strumento inadeguato, il decreto legge

Veniamo poi allo strumento scelto dal governo, quello del decreto legge, che appare altamente inadeguato. Ciò per due motivi per lo meno. Il primo è di ordine giuridico: benché nel corso dei decenni gli esecutivi abbiano operato come loro pareva in questo senso, la nostra Costituzione è molto chiara in merito. Il decreto legge deve essere utilizzato solo ed esclusivamente in caso di «necessità ed urgenza». Nella mente dei padri costituenti, rappresentava uno strumento attraverso il quale il potere esecutivo poteva appropriarsi, in modo rigorosamente temporaneo, del potere legislativo, che come noto è in capo al Parlamento. 

Così, ad esempio, in caso di un terremoto o di un’inondazione, sarebbe stato possibile agire rapidamente, senza dover attendere il normale iter legis. In questo caso, è davvero difficile comprendere dove siano la necessità e l’urgenza. Come noto, inoltre, il Parlamento si riappropria del potere legislativo entro 60 giorni: tempo limite entro il quale il provvedimento deve essere o convertito in legge, o decade. E a regolare i rapporti giuridici che nel frattempo si saranno instaurati dovrà pensarci a quel punto una “legge sanatoria”. 

Perché non passare perciò per l’iter di approvazione delle leggi ordinarie? Per ragioni di visibilità? Per ragioni politiche? Perché inserire la norma in un provvedimento che ne prevede moltissime altre, annegandola in un mare di argomenti disparati? Se non è utile una discussione parlamentare ampia e profonda su un argomento gigantesco come quello della bulimia finanziaria e della necessità di riportarla al servizio delle comunità e dell’economia reale, quando lo è allora?

Uno strumento che rischia di agevolare le reazioni speculative della finanza

La seconda ragione per la quale lo strumento del decreto, con l’attesa di due mesi che ne consegue, è inadeguato è da ricercare proprio nella natura della finanza attuale. Già nelle prime 24 ore i titoli bancari in Borsa sono finiti sulle montagne russe. Prima il crollo derivante dalla notizia annunciata in pompa magna dal governo, poi la risalita dopo il parziale dietrofront del Mef (secondo il quale il gettito non potrà essere superiore allo 0,1% degli attivi del singolo istituto). Il rischio è che per due mesi Piazza Affari si ritrovi esposta ai venti mossi dalla dichiarazione del singolo parlamentare, del tweet del singolo membro di commissione della Camera o del Senato, dall’intervista concessa sotto l’ombrellone dal singolo sottosegretario. 

A qualcuno farà senz’altro piacere, intendiamoci. I saliscendi in Borsa piacciono enormemente proprio agli speculatori, quelli che andrebbero tassati. 

Esiti incerti per una misura sospettata di populismo

È per tutto questo che gli esiti della manovra appaiono davvero incerti. Eppure le alternative ci sarebbero, per recuperare ingiusti arricchimenti del mondo della finanza senza generare rischi per l’economia reale, agendo in funzione anti-speculativa e proteggere chi già fa finanza tutelando i piccoli risparmiatori. Per cui, come non pensare che la volontà principale fosse – prima ancora di ottenere il lauto gettito – poter affermare di essere “quelli che hanno tassato le banche”? Troppo allettante. Anche se poi per quella stessa tassazione, se applicata così come è stata presentata, è possibile che nei prossimi mesi possa rendere quasi inutile presentarsi in banca per chiedere un prestito.