Val d’Agri, Ravenna, Taranto. L’impatto di Eni sulle comunità italiane

Dalla Basilicata alla Lombardia, un viaggio in Italia alla scoperta dei reali impatti dei business di Eni su territori e comunità

Rita Cantalino
Il Centro Olio Val d'Agri (COVA) © Libero Osservatorio Val d'Agri
Rita Cantalino
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La guerra in Ucraina ha condotto a una revisione della nostra strategia energetica nazionale, che ha affidato a Eni il compito di trovare fonti di gas non russe. Il ruolo centrale del colosso dell’energia è confermato: la partecipata, del resto, opera ancora su un gran numero di territori in Italia. Generando però numerosi impatti problematici sulle comunità che li ospitano.

Le promesse di Eni e la realtà in Basilicata

In Basilicata, ad esempio, c’è il più grande centro di estrazione di idrocarburi d’Europa, il Centro Olio Val d’Agri (Cova). Quando Eni ha fatto il suo ingresso nella regione, l’oro nero è stato presentato come un potenziale veicolo di emancipazione e di sviluppo economico-occupazionale. Ma è andata diversamente.

La Basilicata è rimasta tra le regioni più povere d’Italia. «Il Cova ha cambiato radicalmente il tessuto sociale dei nostri territori. Da una valle vocata all’agricoltura di pregio siamo passati all’industria estrattiva. Che ha trasformato i nostri ragazzi in operai (quelli fortunati, perché tantissimi sono andati via). E ha fatto precipitare verso il basso la qualità della vita». A spiegarlo è Isabella Abate, guida ambientale e attivista dell’Osservatorio Popolare per la Val d’Agri.

«Le note vicende di sversamenti, cattiva gestione dell’impianto e i continui incidenti – aggiunge – ci restituiscono una fotografia tutt’altro che rassicurante. E una visione del futuro tetra di un territorio avvelenato e deserto». Il riferimento è all’accusa di disastro ambientale, a seguito delle indagini partite a inizio 2017, dopo la scoperta di una importante perdita e che hanno riscontrato la compromissione dei serbatoi di stoccaggio: gli idrocarburi erano arrivati a toccare la rete fognaria. 

Ravenna e Gela, dal PNRR alle bioraffinerie

L’altro grande centro di estrazione nazionale, a Ravenna, è assurto agli onori delle cronache per il progetto – inserito nel PNRR – di cattura e stoccaggio di CO2. A fermare il tutto, la bocciatura dell’Unione europea, con un sospiro di sollievo degli ambientalisti, contrari alla pratica visti i potenziali impatti sulla sismicità della zona.

Lo stabilimento di Gela, apre invece alla fine degli anni Cinquanta. E diviene volano dello sviluppo economico di un territorio fortemente arretrato. È il 2008 quando arrivano le perdite, culminate nella cassa integrazione, nel 2012, per 500 dipendenti. Nel 2014 il ciclo di raffinazione viene chiuso. Nel frattempo, l’inquinamento atmosferico  e delle acque: l’edizione 2011 del rapporto Sentieri evidenzia nell’area, SIN dal 1998, un aumento del rischio di tumori e malformazioni. Menzione a parte per l’utilizzo del pet-coke, sostanza messa al bando nel 1997 a causa degli effetti sulla salute e riabilitata nel 2002 dal governo Berlusconi, a seguito del sequestro degli impianti di Gela da parte della magistratura, con il “Decreto Gela”. 

La città è in attesa di bonifiche (al momento sono effettuate per il 15% per le aree di terra e appena il 13% per quelle in acqua) e riconversione. L’accordo raggiunto è per la produzione di benzina “verde”. Nasce così la “bioraffineria”. «Le bioraffinerie sono l’esempio più palese di come il cane a sei zampe intenda la sostenibilità. A Gela dal 2019 si utilizza olio di palma proveniente dall’Indonesia: quell’olio di palma tanto vituperato pubblicamente. In Sicilia viene utilizzato come elemento principale dei cosiddetti biocarburanti», racconta Andrea Turco, giornalista originario di Gela, secondo il quale si progetta di arrivare a più di 5 milioni di tonnellate di biocarburanti.

olio palma
Una scavatrice taglia un albero di palma da olio © Wirachai/iStockPhoto

Eni, Porto Marghera, l’olio di palma e la deforestazione

«In questi giorni – aggiunge – l’amministratore delegato Descalzi ha concluso una serie di accordi con alcuni Paesi africani, dal Benin al Mozambico, per ricevere materia prima. Soprattutto olio di ricino, per alimentare le bioraffinerie italiane. Ciò comporterà un aumento delle emissioni per via dei trasporti. Altro che economia circolare e filiera corta: all’orizzonte si profila una nuova colonizzazione di terreni individuati come marginali».

Destino simile pare avere anche la raffineria “bio” di Porto Marghera. «Eni per decenni ha contribuito a seminare veleni nell’aria, nell’acqua e nel suolo così come la maggior parte delle industrie del più grande SIN d’Italia. I dati dello studio “Sentieri” sono inequivocabili. La maggior parte delle aree è ancora da bonificare. Oggi Eni ha una raffineria cosiddetta bio, che utilizza cioè olio di palma, contribuendo alla deforestazione delle foreste primarie», racconta Mattia Dondel, del comitato OpzioneZero. Che denuncia altre questioni relative al suo territorio: «Oltre a questo c’è Versalis, industria per la fabbricazione e la lavorazione di plastiche. È prevista la sua trasformazione in produzione green, ma negli ultimi anni sono stati numerosi gli stop a causa della vetustà degli impianti e della scarsa manutenzione».

Lungo il perimetro del triangolo industriale troviamo poi la raffineria di Sannazzaro de Burgondi, in provincia di Pavia. Inaugurata nel 1963, nel 1986 dichiarata “a rischio di incidente rilevante”, nel 2009 classificata da Legambiente al quarto posto per emissioni di PM10 e al terzo per cadmio e cromo. Fino al 2007 era la stessa Eni a gestire il monitoraggio. Qui si sono verificati gravi incidenti: nel 2012 e 2013, l’esplosione del 1 dicembre 2016, l’incendio del febbraio del 2017 e numerosi altri episodi. Ognuno dei quali ha rilasciato sostanze con potenziali effetti pericolosi sulla salute

Taranto, non solo l’Ilva

Infine, le vicende dell’impianto di Taranto, spesso messe in ombre da quelle dell’ex Ilva. Virginia Rondinelli, attivista del Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti, sostiene che emissioni ed eventi anomali siano all’ordine del giorno: «L’ultimo episodio di accensione delle torce di emergenza risale ad un mese fa. Per “fortuna” i gas sono stati bruciati e noi abbiamo respirato soltanto i prodotti della combustione. Meno di due settimane fa, gli “sfiati” da potenziali emissioni di diossine e furani sono stati autorizzati e catalogati come “emissioni discontinue e ad inquinamento non rilevante».

Del resto Taranto è un nodo strategico a livello nazionale: «Quattro giorni fa (24 marzo) 3500 tonnellate di SAF, biocarburante per l’aviazione, proveniente ad oggi solo per il 5% da materie prime rinnovabili, prodotte a Taranto, sono sbarcate a Civitavecchia per raggiungere Fiumicino. In un colpo solo Eni, Aeroporti di Roma e Ita Airways gestiscono i destini di due città e tre vertenze di rilevanza nazionale sul piano lavoro e ambiente. Con il benestare di uno Stato che, da tradizione cristiana, elargisce la sua indulgenza a chi paga meglio».