A Bologna è nata l’università della giustizia climatica

La Climate Justice University nasce in una fase in cui i movimenti si interrogano sulle nuove strategie da adottare

Andrea Di Turi
© Mika Baumeister/Unsplash
Andrea Di Turi
Leggi più tardi

Ha preso il via a Bologna la Climate Justice University (CJU). Organizzata in una serie di quattro workshop (fino a giugno) e in una summer school (a settembre). Oltre a una serie di eventi collaterali – fra cui quello del 24 maggio su “Le false soluzioni alla crisi climatica: il protagonismo di Snam ed Eni” -, l’iniziativa si propone come spazio di discussione. Per comprendere l’ecosistema della giustizia climatica, e in particolare la sua dimensione sociale.

A promuoverla, col supporto fra gli altri di GIT Banca Etica Bologna, è Bologna for Climate Justice (B4CJ), realtà che ha contribuito al percorso sfociato a ottobre 2023 nell’organizzazione a Milano del primo World Congress for Climate Justice.

«L’idea è nata dal lavoro di mobilitazione che da tempo B4CJ porta avanti», spiega Lorenzo Zamponi. Professore di Sociologia alla Scuola Normale Superiore di Pisa, in virtù dei suoi studi sulle mobilitazioni sul clima è nel Comitato scientifico della CJU. E ha tenuto la lezione introduttiva del primo workshop il 15 marzo scorso.

A chi si rivolge la CJU?

In particolare agli attivisti dei movimenti climatici. Ma anche ad amministratori pubblici, sindacalisti, studenti. A tutte le persone, più o meno attive nella società, che vogliono approfondire i temi legati al riscaldamento globale.

La data di apertura della CJU, il 15 marzo, è stata scelta simbolicamente perché cadeva a cinque anni esatti dal primo sciopero globale sul clima del 15 marzo 2019. Quel giorno è entrata in scena in Italia una nuova generazione di attivisti climatici.

I sondaggi che avevamo condotto in occasione degli scioperi globali di marzo e settembre 2019, dicevano che ai cortei avevano partecipato persone di età media molto bassa. Molte delle quali non erano mai state in piazza o comunque ne avevano una limitatissima esperienza.

La sua lezione introduttiva titolava “Movimenti sociali e crisi climatica: dove siamo?”. Le poniamo la stessa domanda…

Per la prima volta rispetto ai due decenni precedenti, il conflitto ambientale che si agiva non era legato a vertenze territoriali, bensì a un’unica vertenza globale, quella climatica. Ciò ha rappresentato un’innovazione molto forte.

Tutto quello che si è mosso a partire dall’iniziativa di Greta Thunberg nella seconda metà del 2018 ha avuto un impatto notevole, specie in Italia, dove rispetto ad altri Paesi partivamo da un livello di consapevolezza più basso sul clima.

Oggi, invece, dopo cinque anni di mobilitazioni, se ne parla in modo completamente diverso. Quando accadono disastri naturali, la questione «è colpa del clima, non è colpa del clima», anche se a volte strumentalizzata, è stabilmente parte del dibattito. Per cui il bilancio di questi cinque anni è certamente positivo.

Perché la partecipazione in Italia all’ultimo Global Climate Strike è stata lontana da quelle oceaniche dei primi anni?

I movimenti naturalmente hanno avuto un’evoluzione in questi anni. Ad esempio hanno sviluppato una dialettica con chi era in campo da tempo, pensiamo alle vertenze territoriali contro le grandi opere. C’è stata anche una maturazione intorno all’idea di giustizia climatica, che si può riassumere nello slogan «system change, not climate change».

Senza dubbio la dinamica degli scioperi globali del clima, momenti di aggregazione di massa che sono stati al centro dell’azione in questi anni, appare un po’ stanca. Anche a causa di un’assenza assoluta di risposta da parte della politica, si avverte il rischio che diventino dei rituali e c’è un problema di efficacia. Perciò nei movimenti si sta discutendo molto su cosa fare, sulle risposte da dare a una grande domanda di risultati.

Quali altri strade potrebbero sperimentare ora i movimenti sul clima?

Ci si interroga se una risposta possa essere una spinta verso la radicalizzazione. Da intendersi fra mille virgolette, dato che stiamo parlando di azioni al cento per cento non violente. Come dimostra il fatto che i tentativi di reprimerle, con accuse addirittura di «associazione a delinquere», e strategie mirate a criminalizzarle agli occhi dell’opinione pubblica per alienare il consenso, si stanno sgonfiando. E le accuse via via cadono.

Nei movimenti hanno cominciato a farsi strada, anche se in forma minoritaria, forme di disobbedienza civile, quali le esperienze di Extinction Rebellion o Ultima Generazione. Ma normalmente la disobbedienza civile è molto difficile venga praticata in massa.

Perciò si discute anche sulla possibilità di intraprendere la strada istituzionale. Ci sono esponenti di Fridays for Future che hanno lanciato, a livello individuale, liste per le elezioni comunali, altri che si candideranno alle prossime elezioni europee.

Ha un “messaggio nella bottiglia” da lanciare?

Un’ulteriore strategia che sta avanzando e che penso abbia un futuro è quella delle “climate litigation”, verso gli Stati e le imprese private. Hanno tempi lunghi e presentano aspetti fortemente aleatori. Tuttavia in Italia abbiamo una tradizione importante di avanzamenti, in termini di diritti civili, portati più da sentenze della Corte costituzionale che da voti del Parlamento.

Si è riusciti a portare il tema del clima al centro del dibattito, ma anche il negazionismo climatico si è rafforzato: è ben strutturato, retribuito, è anche presente nell’attuale governo. Per cui bisogna mantenere lucidità e proseguire. La battaglia è aperta.