Protestare o boicottare? Il dilemma dei movimenti verso la Cop28

Mancano quattro mesi alla Cop28, il negoziato ONU sul clima di Dubai. Ma i movimenti sono scettici, e c'è chi pensa al boicottaggio

Climate strike a Erlangen, Germania © Markus Spiske/Unsplash

Mancano quattro mesi esatti alla Cop28, il ventottesimo incontro negoziale sul contrasto al riscaldamento globale delle Nazioni Unite. L’edizione 2023 aprirà i battenti il 30 novembre a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti.

Un incontro al vertice sulla lotta alla crisi climatica ha le potenzialità per essere il centro della politica globale, dopo un’estate di temperature record e nel mezzo della crisi energetica. Eppure, gli attivisti guardano con disincanto a questo appuntamento. La location, individuata in una petromonarchia autoritaria, e la scelta del Ceo dell’azienda petrolifera di Stato emiratina come presidente sono stati la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Il variegato mondo dei movimenti per la giustizia climatica ha sempre meno fiducia nei processi negoziali che da un quarto di secolo l’Onu porta avanti.

I precedenti: dai cortei al deficit democratico

Sembra passata un’era geologica dalla Cop26, il summit 2021 ospitato a Glasgow. In quell’occasione gli spazi politici aperti dai piani di ripresa post-Covid, il ritorno dei Democratici alla Casa Bianca e le proteste iniziate nel 2019 avevano fatto sperare molti osservatori in una possibile svolta. Tanto i nomi storici dell’ecologismo – WWF, Greenpeace, Friends of the Earth – tanto quanto le nuove leve – Fridays For Future, Extinction Rebellion – raccolsero la sfida organizzando due settimane di mobilitazione nella città scozzese. Un’impresa non facile con la pandemia non ancora domata. Ma la scommessa fu vinta oltre le aspettative: più di duecentomila manifestanti accorsi da tutto il mondo si accalcarono in quei giorni nelle strade di Glasgow.

Nonostante la pressione popolare e le alte aspettative, il vertice si chiuse senza enormi successi. Vennero firmati accordi importanti su metano e riforestazione, e si chiusero alcuni dei capitoli negoziali rimasti aperti fin dalla Cop21, quella in cui vennero firmati gli Accordi di Parigi. Ma nell’insieme la svolta attesa non arrivò.

Tutto si spiega

la storia delle cop

La storia delle COP

Le Conferenze delle Parti (Cop) sono gli strumenti di cui le Nazioni Unite si sono dotate per cercare di risolvere il problema dei cambiamenti climatici

Nel 2022 la Cop si spostò a Sharm el-Sheikh, in Egitto. Come quest’anno, la presidenza spettò ad un Paese dittatoriale e legato al business dei combustibili fossili. Delusi dall’esperienza dell’anno precedente – e impossibilitati ad organizzare mobilitazioni di massa in Egitto – i movimenti per il clima cambiarono strategia. Gli attivisti occidentali si fecero da parte per lasciare spazio alle realtà del Sud globale, e i militanti presenti – in gran parte africani – approfittarono dello spazio mediatico offerto dall’evento per denunciare le atrocità del regime egiziano. «Non c’è giustizia climatica senza democrazia» era lo slogan.

Ora quelle stesse realtà sono di fronte ad un bivio. Come prepararsi alla Cop emiratina?

Le alternative: boicottaggio e contro-vertice

Una prima risposta arriva dalle realtà riunite nella piattaforma Earth Social Conference. 41 sigle da decine di Paesi diversi hanno lanciato un appello agli attivisti di tutto il mondo. Niente di buono arriverà dalla Cop di Dubai – è il loro messaggio. Per questo, la scelta migliore è ignorarla. I firmatari propongono di organizzare un contro-vertice, l’Earth Social Conference, appunto, in concomitanza con l’evento delle Nazioni Unite. Sulla sede non c’è ancora ufficialità, ma c’è chi parla del Pakistan, un Paese che nell’anno passato ha sofferto le peggiori alluvioni della sua storia.

«Ci rifiutiamo di partecipare a un processo negoziale le cui parole valgono meno dell’inchiostro con cui sono state scritte. Non abbiamo un solo secondo da perdere a Dubai» è la chiusa dell’appello.

Uno spirito simile a quello di un’altra campagna: Boycott Cop28. Anche in questo caso ad animarla è una pluralità di associazioni, provenienti sia dal mondo ecologista sia dalla difesa dei diritti umani. Oltre a denunciare l’inefficacia degli incontri promossi dall’Onu, gli attivisti puntano il dito contro la gestione del dissenso negli Emirati Arabi Uniti. «Il Paese è considerato non libero dal rapporto Freedom in the World e occupa il 138° posto nella classifica delle nazioni per libertà di stampa», annotano i promotori. 

Fridays For Future: «Cop28 in mano alle lobby»

«La scelta di nominare il Ceo dell’ADNOC (Abu Dhabi National Oil Company) come presidente della Cop28 non ci ha sorpresi. Conferma solo un trend già evidente: le Cop sono in mano alle lobby del fossile e lontanissime dalle persone comuni». Non usa mezzi termini Ester Barel, portavoce di Fridays For Future Italia, quando le chiediamo un commento sul summit di quest’anno.

«Sia a livello nazionale sia come movimento globale stiamo ancora discutendo della linea da darci durante la Conferenza. Non credo che la Cop si possa ignorare, il punto è come usare quel momento», continua Barel. «Abbiamo dei punti fermi. Primo, la necessità di dare spazio al Sud globale. Già a Sharm el-Sheikh si è discusso molto dei risarcimenti che spettano alle nazioni più colpite dalla crisi climatica, il cosiddetto loss and damage. A Dubai questo dialogo ripartirà, e serve tutta la pressione possibile da parte dei movimenti africani, latini, asiatici. Secondo, seguire questa Cop servirà a farci capire quanto dall’altro lato della barricata abbiano paura. La civiltà dei combustibili fossili è in crisi, lo sanno anche loro, ed è in queste occasioni che possiamo saggiare la loro resistenza».

Quali sono i prossimi passi? «A livello globale nel corso dell’estate si discuterà del da farsi. A settembre molte realtà del mondo della giustizia climatica nel Sud globale si ritroveranno in Libano. Un appuntamento interno che avrà anche la Cop tra i temi di discussione. Qui da noi ci saranno alcune date cruciali, in primis lo sciopero climatico del 6 ottobre. È fondamentale riprenderci le piazze».

Cop28: un summit difficile

Di certo il contesto non aiuta a portare ottimismo in chi si occupa di clima e ambiente. Non solo la presidenza di turno è quest’anno degli Emirati Arabi Uniti, un Paese storicamente parte del blocco più conservatore nell’ambito dei negoziati per il clima. Anche lo scenario internazionale non sembra per ora giocare a favore di un esito ambizioso.

L’invasione russa dell’Ucraina ha spostato l’attenzione dei Paesi occidentali. La spesa militare è tornata a crescere, toccando la cifra record di 2.240 miliardi di dollari nel 2022. Un impegno su un settore ad alto impatto ambientale che minaccia di distrarre i fondi necessari alla transizione ecologica. Non solo: le rinnovate tensioni geopolitiche rendono anche più difficile l’avanzare dei negoziati. La distanza sempre crescente tra Cina e Stati Uniti, più di tutto, è un enorme ostacolo. Qualunque accordo preso in sede Cop deve ottenere l’unanimità, e nessun trattato è efficace se non è firmato da Pechino e Washington, rispettivamente primo e secondo emettitore globale.

Il piano presentato dal sultano Al-Jaber, presidente di COP28, come base per Dubai non contiene alcuna spinta ambiziosa. Qualche buona notizia c’è, come la riapertura dei canali diplomatici tra Cina e Stati Uniti. Ma troppo poco e troppo tardi per convincere gli attivisti che dal summit degli Emirati verrà la svolta necessaria.