Ikea, Amazon, Google & co. Il fallimento delle promesse di neutralità climatica
Un rapporto di NewClimate Institute fa luce sugli impegni delle 25 più grandi multinazionali globali per la neutralità climatica
«Da un grande potere derivano grandi responsabilità», potremmo dire leggendo i dati dell’ultima ricerca di NewClimate Institute che, in collaborazione con Carbon Market Watch, analizza e valuta le strategie climatiche di 25 multinazionali. Il grande potere sta nei numeri: quelle 25 aziende sono responsabili di circa il 5% delle emissioni globali di gas a effetto serra. Ovvero 2,7 miliardi di tonnellate equivalenti di CO2 nel 2019. Le grandi responsabilità dipendono dalla possibilità che queste multinazionali hanno di contribuire a combattere la crisi climatica.
Si tratta delle 25 più grandi multinazionali al mondo, con un giro d’affari complessivo di 3.200 miliardi di dollari all’anno. E i loro nomi sono noti a tutti noi. Tra gli altri: Ikea, Amazon, Apple, Unilever…
Cosa si intende per “zero emissioni”
L’espressione “zero emissioni” crea spesso fraintendimenti. Presa alla lettera, suggerisce l’idea che le attività umane smettano di generare gas a effetto serra. Una lettura – superficiale – che presta il destro ai climatoscettici, che ritengono così velleitarie le richieste degli ambientalisti. Pure se queste sono supportate dalla scienza. In realtà, si parla di “zero emissioni nette”. In altre parole, occorre limitare le emissioni di gas a effetto serra prodotte a una quantità non superiore a quella che siamo in grado di “sottrarre” dall’atmosfera.
Cosa significa zero emissioni nette?Cosa dice la ricerca dei progressi verso la neutralità climatica
Analizzando gli obiettivi di carbon neutrality che tutte queste aziende si sono fissate e le azioni effettivamente adottate emerge che la neutralità è ben lontana. In media, si raggiungerà una diminuzione di emissioni del 20% rispetto al 2019, alla data che ciascuna azienda si è data come obiettivo per l’azzeramento.
Solo tre multinazionali (Maersk, Vodafone e Deutsche Telekom) si impegnano in maniera esplicita per una decarbonizzazione di oltre il 90% nell’intera catena del valore. Almeno cinque, invece, annunciano riduzioni di meno del 15%, spesso escludendo le emissioni upstream e downstream. Ovvero le emissioni indirette, collegate però alla catena del valore dell’azienda. Cioè riconducibili alle attività aziendali, anche se non direttamente controllati da essa.
La mancanza di chiarezza e di ambizione
Quello dei cosiddetti “scope” è un sistema di classificazione delle emissioni messo a punto dal Greenhouse Gas Protocol (GHGP) insieme al World Resources Institute (WRI) e al Business Council for Sustainable Development (WBCSD). Si tratta di un protocollo che fornisce standard contabili e di rendicontazione, strumenti di calcolo e formazione per imprese e governi. Stabilendo così un quadro standardizzato per la misurazione delle emissioni di ogni fase di attività, nei settori pubblici e privati.
Il Greenhouse Gas Protocol divide le emissioni in tre “scope”:
- scope 1: sono le emissioni generate in maniera diretta su cui le aziende hanno un controllo. Ad esempio, i combustibili fossili usati per riscaldare gli edifici;
- scope 2: si tratta delle emissioni connesse con l’energia acquistata dall’impresa, in particolare ai fini dei consumi elettrici. Si tratta quindi dei combustibili bruciati da terzi;
- scope 3: comprende tutte le altre emissioni indirette connesse all’attività dell’azienda. Per esempio, quelle relative alle catene di fornitura o all’utilizzo dei beni prodotti;
È in particolare sullo scope 3 che le 25 multinazionali analizzate nella ricerca di NewClimate Institute mostrano carenze. Quelle emissioni, infatti, spesso non vengono contabilizzate. Un problema enorme, se si considera che, in media, l’87% di esse è riconducibile proprio allo scope 3.
Nel complesso, dalla ricerca emerge che gli obiettivi sono molto lontani dall’ambizione necessaria per allinearsi all’Accordo di Parigi. E spesso includono progetti la cui reale efficacia è oggetto di discussione. Come quelli di compensazione delle emissioni ottenute attraverso piani di riforestazione.
Le aziende esagerano i propri progressi verso la neutralità climatica
«Abbiamo cercato quante più buone pratiche possibili, ma siamo rimasti francamente sorpresi e delusi dal grado di coerenza generale delle affermazioni delle aziende», ha dichiarato Thomas Day, autore principale della ricerca. «Aumentiamo la pressione sulle aziende affinché agiscano sui cambiamenti climatici, ma le loro affermazioni ambiziose troppo spesso mancano di concretezza». Con il rischio di fuorviare sia i consumatori che le autorità di regolamentazione. Scivolando a volte nel greenwashing. «Anche le aziende i cui comportamenti sono relativamente buoni finiscono per magnificare eccessivamente i propri progressi», sottolinea Day.
La mancanza di strumenti adeguati
A ottobre scorso, alla vigilia della Cop26 di Glasgow la società BCG Gamma aveva calcolato che se un’azienda quotata su cinque, nel mondo, si era impegnata a raggiungere la neutralità climatica, solo il 9% misurava con precisione le proprie emissioni. L’autrice principale del rapporto, Charlotte Degot, indicava tra le cause il problema degli strumenti di misurazione delle emissioni e la complessità della raccolta e del trattamento dei dati. «Non è cattiva volontà da parte loro, o greenwashing», dichiarava Degot. «È semplicemente molto complicato senza strumenti adatti».
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Sono diverse le iniziative, tra cui quella di Science Based Targets (SBT), che offrono alle aziende riferimenti condivisi per il raggiungimento della neutralità climatica. Ma anche queste presentano delle lacune, evidenzia il NewClimate Institute sottolineando come 16 delle 25 aziende analizzate abbiano ricevuto la certificazione SBTi. Secondo la quale i loro piani climatici sono compatibili con l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura media globale a 1,5 gradi centigradi alla fine del secolo rispetto all’epoca preindustriale.
Gli esperti chiedono che i governi intervengano per regolamentare in maniera più rigorosa gli impegni climatici delle imprese. Ciò anche affinché «gli attori più ambiziosi non subiscano svantaggi economici rispetto ai colleghi meno ambiziosi», ha dichiarato Silke Mooldijk, coautrice dello studio.
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