Il “premio sostenibilità” di Eni non c’entra nulla con la sostenibilità
A Eni un premio per come racconta la sostenibilità (non per come la fa). A concederlo sono stati banchieri, petrolieri e super-manager
Un premio non si nega a nessuno. Nemmeno a chi, per meritarlo, ha fatto davvero poco. È con questo spirito che il World Business Council for Sustainable Development (WBCSD) deve aver inserito la multinazionale petrolifera Eni nella lista delle 10 migliori corporation nell’ambito della reportistica di sostenibilità. Un risultato subito rivendicato dal cane a sei zampe: «Il nostro posizionamento rappresenta un riconoscimento concreto del lavoro svolto finora», ha dichiarato a La Stampa Alberto Piatti, responsabile dello sviluppo sostenibile del colosso di piazzale Mattei.
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Il premio. E i dettagli che contano
Com’è possibile un’azienda che ancora nel 2017 figurava al 14° posto nella classifica dei gruppi a più alte emissioni di gas ad effetto serra del Pianeta oggi riceva riconoscimenti per le sue performance verdi? Il trucco sta nell’oggetto della valutazione. Il WBCSD non giudica la sostenibilità degli investimenti di Eni. Né la sua strategia di decarbonizzazione. Unico parametro preso in considerazione è la reportistica. Il punto, insomma, non è cosa l’azienda faccia, ma solo come lo racconta ai suoi stakeholders.
Una distinzione, quella appena spiegata, fondamentale. Il rischio, in questi casi, è che al grande pubblico arrivi un messaggio eccessivamente benevolo, che scambia il buon reporting per effettiva azione climatica. L’intervista al responsabile del settore sviluppo sostenibile dell’azienda che citavamo in apertura, ad esempio, si intitola «Eni premiata dal World Business Council: è nella top ten mondiale per la sostenibilità». Esigenze di sintesi giornalistica, chiaro, che potrebbero però involontariamente ingannare il lettore distratto fermo al solo titolo.
La giuria (e il ruolo di Eni)
Ma ancora più interessante è dare uno sguardo a chi assegna questo prestigioso (?) riconoscimento. Il WBCSD è un’iniziativa globale diretta da oltre 200 amministratori delegati pescati tra le più grandi multinazionali del mondo. Tra i membri figurano giganti del settore finanziario come Mastercard, Bloomberg e BNP Paribas; dell’IT come Apple, Amazon e Google; dello shipping come MSC; dell’oil&gas come Chevron, Total, British Petroleum, Shell e Enel. Soprattutto, nell’elenco c’è anche Eni.
La ricerca che premia Eni, insomma, è almeno in parte promossa da Eni stessa. E comunque i partner sono aziende che, spesso, inquinano tanto quanto quella italiana.
Altri traguardi
A guardarlo da vicino, il bollino ricevuto dal cane a sei zampe appare meno entusiasmante di quanto non possa sembrare al primo approccio. E dire che di record e ottimi piazziamenti Eni ne può vantare parecchi.
Nel 2017, lo dicevamo sopra, Thomson Reuters la inseriva al 14° posto nella classifica delle aziende più inquinanti, in termini di emissioni climalteranti, dell’intero Pianeta. Non solo: stando ai dati raccolti da Greenpeace, la multinazionale rappresenta la prima in assoluto tra le italiane in termini di emissioni di CO2, con la non invidiabile responsabilità di 537 milioni di tonnellate annue. Più di quelle prodotte nello stesso arco di tempo nell’intero territorio italiano.
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Ma il curriculum poco verde di Eni è lungo. Un anno fa l’associazione Re:Common denunciava l’opera di lobbying dell’azienda nella stesura del PNRR. Ancora peggiore è la fama di cui gode Eni nel delta del Niger, dove opera da decenni. Oltre tremila fuoriuscite di petrolio in una delle aree più inquinate del continente africano. Una situazione portata alla luce dei riflettori mondiali anche da Amnesty International.
Anche su questi numeri e record è impresso il marchio Eni. Ma, a differenza del bollino assegnatogli dagli amministratori delegati riuniti nel World Business Council, di questi risultati il board di Eni non ama vantarsi sulle pagine dei quotidiani.