Spotify, la musica non suona più come prima
Il modello di business di Spotify sembra traballare. Al crollo in Borsa si accavallano le incertezze sul futuro
Era il 2006: un tempo in cui la Rete era abbastanza giovane da essere quasi per nulla regolamentata e la pirateria musicale era alle stelle. Non c’era più bisogno di comprare CD che si sarebbero rigati in poco tempo: si poteva scaricare tutto, gratuitamente (e illegalmente).
Spotify nato come una zattera per le etichette discografiche
Rispetto agli anni Novanta, infatti, i ricavi del settore si erano quasi dimezzati. Gli imprenditori svedesi Daniel Ek e Martin Lorentzon trovarono una soluzione, la chiamarono Spotify e la lanciarono ufficialmente due anni dopo, nel 2008. Le etichette discografiche lo sostennero di buon grado: la nuova piattaforma sembrava la zattera a cui appoggiarsi.
Da allora molto tempo è passato, molto è cambiato. E nel 2022, anche il vento finora in poppa sembra soffiare in direzione avversa per Spotify. Il suo debutto sul mercato era stato nell’aprile del 2018: le contrattazioni in Borsa si erano aperte a 165,90 dollari per azione, con una valutazione di 29,5 miliardi di dollari. Solo due anni fa, nel febbraio 2021, le sue azioni chiudevano al massimo storico di 364,59 dollari: ora sono a 80 dollari per titolo, una riduzione dell’80%. E se il valore di mercato era di 69 miliardi di dollari, ora è sceso a 15.
Il tracollo in Borsa
La piattaforma basa le sue entrate sulla pubblicità e sugli abbonati premium. Nell’ultimo periodo la spesa pubblicitaria ha subito in generale un forte rallentamento dovuto all’aumento dell’inflazione e dei tassi di interesse che hanno spinto gli acquirenti a ridurre i budget. Questo ha esacerbato la già forte dipendenza dagli utenti a pagamento. Proprio con l’idea di ridurre questa dipendenza e con l’obiettivo di ampliare il business pubblicitario, Spotify ha deciso investire sul mercato dei podcast.
Secondo le voci di portavoce e dirigenti, il 2022 è stata ancora una fase di investimenti a medio-lungo termine e dal 2023 l’azienda migliorerà i propri tassi di redditività. Nel terzo trimestre del 2021 Spotify ha dichiarato di essere la prima piattaforma di podcast più ascoltata degli Stati Uniti: il segmento dovrebbe rappresentare un’opportunità di 20 miliardi di dollari.
Un miliardo di dollari investiti in acquisizioni e produzioni legate ai podcast
In realtà, negli ultimi quattro anni l’azienda ha speso più di un miliardo di dollari in acquisizioni e produzioni legate ai podcast: c’è stato un accordo triennale con gli Obama, che poi hanno deciso di non rinnovare il contratto; c’è il podcast di Meghan Markle e di suo marito, il principe Harry; c’è l’esclusiva di Joe Rogan – il podcaster più popolare della piattaforma, con 11 milioni di ascoltatori a episodio ma su cui pendono accuse di disinformazione su Covid e vaccini da parte della comunità scientifica.
Tutti contratti firmati intorno al 2020, tutti da decine se non centinaia di milioni di dollari. Spese non di poco conto, cui si aggiungono un ampliamento del personale e l’aumento dei costi pubblicitari per le iniziative di crescita mirate ai mercati emergenti e alla generazione Z. Le spese operative sono così lievitate del 65%. Nell’ultimo trimestre si sono registrati una perdita operativa di 228 milioni di euro e un flusso di cassa di soli 35 milioni di euro.
La soluzione: un aumento del prezzo degli abbonamenti?
Come dicevamo, l’obiettivo sarebbe quello di aumentare così i ricavi pubblicitari, ma nel frattempo l’opzione sembra essere quella di aumentare il prezzo degli abbonamenti (come hanno fatto recentemente anche Apple Music e YouTube Premium), con un ricavo incrementale stimato a 200 milioni di euro.
Così ora, tutto intorno a Spotify, ci sono molti dubbi, perplessità e concorrenza. Una piattaforma nata per essere soprattutto un software da cui ascoltare musica, che invece si sta concentrando troppo sui contenuti. Contenuti che, fra l’altro, sono destinati soprattutto ai Millennials, ma a guardare YouTube e TikTok il nuovo e più redditizio pubblico sembra essere quello della più giovane generazione Z.
Anche le case discografiche vogliono voltare le spalle a Spotify?
Anche le case discografiche, che nel 2008 avevano accolto con favore la nascita della piattaforma, ora che si sono adattate al mondo di internet preferiscono avere il massimo controllo possibile e non si pongono più come alleate o almeno sostenitrici. Vedono con sfavore un singolo partner troppo forte e si oppongono a qualsiasi concorrenza diretta. Tanto che nel 2018, prima di lanciarsi sui podcast, Spotify aveva cercato di produrre musica direttamente ma aveva poi dovuto fare marcia indietro subito dopo.
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Alcuni analisti cominciano a mettere in dubbio che Ek sia ancora il CEO giusto per guidare l’azienda. Altri sostengono che invece l’impresa, nonostante le ampie perdite registrate nell’ultimo trimestre, sarà in grado col tempo di raggiungere una redditività duratura. Si tratta però di obiettivi a lungo termine. In un mercato che cerca redditività a breve termine. Come tutti, come sempre. Anche se il modello traballa.