Google, Amazon & co. Perché la web tax non esiste ancora

I giganti del digitale sono tassati, in media, la metà delle aziende tradizionali. Una web tax garantirebbe maggiore giustizia fiscale

Tassare i giganti del digitale attraverso una web tax mondiale permetterebbe maggiore giustizia fiscale © James Yarema/Unsplash

Amazon, Google, Facebook. E poi eBay, Airbnb, Netflix, Uber e Booking.com. Piattaforme e servizi on line a cui ci affidiamo ogni giorno. Per lavoro, intrattenimento, acquisti. Nessuna di queste aziende ha la propria sede in Italia, eppure anche nel nostro Paese beneficiamo dei loro prodotti e servizi. E loro da questo traggono benefici. Guadagni, per meglio dire: 3,3 miliardi di euro nel 2019. A fronte dei quali hanno però versato tasse per soli 70 milioni di euro.

Amazon, ad esempio, nel 2019 ha fatturato 1 miliardo di euro e ha versato al fisco italiano 10,9 milioni di euro. Poco? Certamente, ma sempre più di Google (5,7 milioni), Facebook (2,3 milioni) e Ebay (145mila euro). O Netflix, che ha pagato la somma ridicola di 6mila euro di tasse. Quasi sicuramente meno di quanto paghi tu che stai leggendo questo articolo.

Perché c’è bisogno di una web tax?

Come è possibile che colossi di questo calibro, ben presenti con le loro attività in quasi tutto il mondo, paghino così poco? La risposta va cercata in un sistema di filiali domiciliate in diversi Stati. Grazie a tale rete, queste aziende riescono a spostare gli utili in giurisdizioni che hanno un’imposizione fiscale bassissima, se non nulla. Operando quella che si definisce una “ottimizzazione fiscale”. Non evasione, dunque, ma azioni di fatto lecite, che però sfruttano la mancanza di armonizzazione tra i sistemi fiscali. Al contrario, numerosi Paesi usano la leva fiscale per farsi concorrenza a “attirare” capitali: si chiama “dumping fiscale”. Cioè l’offerta, da parte di un Paese, di condizioni vantaggiose, con l’obiettivo di convincere le aziende a spostare la loro sede legale sul proprio territorio.

All’interno dell’Unione europea, per esempio, ogni Stato membro decide della propria politica fiscale. E le politiche fiscali sulle imprese diventano, appunto, una leva per attrarre le imprese. Si genera, così, una concorrenza fiscale che, fin dagli anni Novanta, tende a far abbassare le tasse sulle imprese.

Una situazione di cui approfittano le aziende del settore digitale, le cui operazioni prescindono dalla presenza fisica in un Paese. Amazon, in altre parole, può vendere prodotti a un cittadino italiano anche senza avere una sede nel nostro Paese. E quindi, di fatto, può decidere dove dichiarare tutti o parte dei ricavi ottenuti.

La mancanza di armonizzazione fiscale in Europa

Nei Paesi europei le regole in materia fiscale si fondano sul principio di una stabile organizzazione. Tradotto: un’azienda paga le tasse sui ricavi nel Paese in cui si trova fisicamente. Una presenza misurata dal numero di dipendenti o da quello di beni materiali (fabbriche, terreni, macchinari, ecc.). In mancanza di un’armonizzazione tra i sistemi fiscali dei diversi Paesi dell’Ue, le aziende del digitale possono decidere di installare le loro sedi europee, cioè la loro presenza fisica, nei Paesi che propongono una tassazione più vantaggiosa. Limitando la loro presenza negli altri.

Il risultato è che queste aziende – colossi dai fatturati multimiliardari – in media nella Ue sono soggette a un’aliquota fiscale effettiva pari alla metà di quella delle aziende “tradizionali”.

Che fare? La proposta della Commissione europea del 2018

Per tentare di risolvere il problema, il 21 marzo 2018 la Commissione europea aveva presentato un progetto di tassa sui servizi digitali (web tax), che intendeva definire i criteri per ottenere un’imposizione più equa. La spinta era arrivata dei ministri dell’Economia francese e tedesco, sostenuti da quello spagnolo e dall’italiano Pier Carlo Padoan, allora ministro del governo Gentiloni.

Perché tassare le attività digitali?

L’intenzione era imporre, in tutti gli Stati membri della Ue, una tassazione del 3% sul fatturato (e non solo sui profitti, come nel sistema classico), derivante da alcune attività digitali. Come la vendita di dati personali, la cessione di spazi pubblicitari targettizzati secondo i dati forniti dagli utenti. O ancora l’offerta di servizi che permettono interazioni tra utenti e facilitano la vendita di beni e servizi tra loro.

Il principio alla base di quel progetto era che sono gli utenti a creare il valore dei servizi che utilizzano. Pertanto, la tassa avrebbe dovuto essere pagata in ciascuno Stato in proporzione all’uso dei servizi offerti.

La base imponibile individuata era circoscritta alle aziende con un fatturato globale annuale superiore ai 750 milioni di euro. Di cui almeno 50 milioni realizzati nell’Unione europea. La Commissione prevedeva di colpire così tra le 120 e le 150 aziende, principalmente americane, ma anche asiatiche ed europee. Generando entrate per le casse degli Stati membri di almeno 5 miliardi di euro all’anno. 708 milioni di euro per l’Italia.

Per la Commissione europea un’azione comune era necessaria per, spiegava l’organismo esecutivo comunitario, «evitare che alcuni Stati membri adottino misure unilaterali per tassare le attività digitali. Il che potrebbe condurre a una molteplicità di risposte nazionali che sarebbe dannosa per il mercato unico». Ma questo progetto non è mai stato realizzato.

Cosa ha bloccato il progetto di web tax della Commissione europea?

Il problema essenziale, che blocca ogni tentativo di riforma fiscale, consiste nel fatto che in tale materia ogni Paese della Ue ha diritto di veto nel consiglio. Occorre, infatti, che la decisione venga votata all’unanimità di tutti i Paesi membri. 

Nonostante le proprie dichiarazioni di impegno, per esempio, Angela Merkel non aveva sostenuto con sufficiente convinzione il tentativo. Temendo le minacce americane sullo stop alle importazioni di prodotti tedeschi, in particolare automobili.

Svezia, Danimarca e Finlandia, poi, mostravano indecisione. Legata al fatto che una tassa così concepita potesse andare contro i principi fondanti i sistemi fiscali europei, che tassano i profitti e non i fatturati (giova ricordare, forse, che Spotify è nata e ha la propria sede in Svezia).

E poi, ovviamente, si erano opposti i Paesi dove allora avevano sede i colossi del web, come l’Irlanda che ospitava Facebook e Google, o il Lussemburgo, dove aveva sede Amazon. 

Sulla web tax avanti in ordine sparso

In mancanza di un accordo a livello europeo, nel luglio del 2019 la Francia ha varato la prima web tax nazionale, spingendo gli Stati Uniti a rispondere con l’innalzamento di tasse doganali su prodotti francesi.

Nelle intenzioni del governo francese, la “tassa sui servizi digitali” avrebbe dovuto far entrare nelle casse dello Stato 400 milioni di euro nel 2019 e 650 milioni nel 2020. L’imposta francese si basa, come la proposta europea, sull’idea che è l’attività degli utenti delle piattaforme che ne crea il valore. Per questo la web tax transalpina si applica a due tipi di servizi digitali: quelli di intermediazione che permettono a un utente in Francia di entrare in contatto con altri utenti e ottenere beni o servizi (ad esempio Amazon o Uber). E e la vendita di servizi di pubblicità targetizzata sulla base dei dati raccolti durante le visite degli utenti (come nel caso di Facebook). La platea delle aziende colpite dalla tassa è selezionata con gli stessi criteri della proposta europea: 750 milioni di euro di fatturato annuo mondiale, di cui almeno 50 milioni nell’Unione europea.

In Italia, invece, in sede di conversione del decreto legge 50/2017 era stato approvato un emendamento, a prima firma Francesco Boccia, che introduceva la cosiddetta web tax transitoria. Ma ragioni tecniche ne hanno fatto slittare l’entrata in vigore al 1 gennaio 2021. È la seconda web tax nazionale in Europa.

Il coinvolgimento dell’Ocse

Incapaci di superare le difficoltà, i veti e i disaccordi, i Paesi favorevoli alla web tax si sono rivolti all’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico.

Quest’ultima, il 29 gennaio 2019 ha presentato un primo accordo raggiunto dai 127 Stati membri contenente alcuni principi per riformare i sistemi fiscali con l’obiettivo di una tassazione più equa dell’economia digitale. L’obiettivo di stabilire una tassa mondiale minima sulle aziende sembrava a portata di mano. Nel corso del G7 che si è tenuto a Biarritz, in Francia, nell’estate del 2019 sotto la guida di Emmanuel Macron persino gli Stati Uniti, fino ad allora contrari, si erano mostrati disponibili a un compromesso. Mai raggiunto, finora.

Una nuova speranza per la web tax

Il 26 febbraio 2021 nel corso di un incontro dei ministri delle Finanze del G20, la segretaria del Tesoro statunitense, Janet Yellen, ha dichiarato che gli Stati Uniti non si opporranno alla ricerca di un accordo sulla tassazione delle aziende del digitale. Yellen si impegna a trovare un accordo in seno all’Ocse rinunciando alla clausola del “safe harbor”, il cosiddetto porto sicuro, per le multinazionali del digitale.

I prossimi mesi saranno cruciali. Obiettivo del G20 è raggiungere un accordo entro la metà del 2021. Anche perché, affinché diventi operativo, occorreranno passaggi nazionali. Nel caso degli Stati Uniti, questo significa l’approvazione da parte del Congresso. Dove i cambiamenti della politica fiscale sono generalmente controversi.