Cosa sono e dove si trovano gli PFAS: gli inquinanti “eterni” e invisibili che ci circondano
Gli PFAS sono ancora poco noti ma presenti pressoché ovunque: dal cibo ai tessuti, dalla plastica ai cosmetici. E sono quasi indistruttibili
Immaginate un inquinamento persistente e pericoloso. Costituito da agenti invisibili ma presenti pressoché ovunque. Nelle case, nelle automobili, nei posti di lavoro, nel cibo, nell’acqua. E che accompagnerà l’umanità intera per secoli, se non per millenni. No, non è la sceneggiatura di un thriller dalle note horror, ma è semplicemente la realtà che viviamo tutti noi. Spesso inconsapevolmente. Benvenuti nell’era delle “sostante per- e polifluoroalchiliche”, gli PFAS.
La storia degli PFAS, dagli anni Quaranta ad oggi
Ribattezzati “inquinanti eterni”, proprio perché capaci di resistere estremamente a lungo nella natura, tali agenti hanno ormai contaminato migliaia di siti in tutta Europa. Per le loro proprietà uniche, sono stati impiegati in una quantità inimmaginabile di prodotti di uso comune. Dalle padelle antiaderenti al materiale medico.
Gli PFAS nacquero alla fine degli anni Quaranta, quando furono scoperti dei prodotti chimici singolari, capaci di evitare ad esempio le macchie o di rendere impermeabili i capi di abbigliamento. Dal Teflon allo Scotchgard al Gore-Tex, solo per citare alcuni nomi a noi familiari. Ma il problema è di un’ampiezza tale da renderlo difficilmente riassumibile in parole: tappeti, corde di chitarre, batterie di veicoli elettrici, vernici, cosmetici anti-acne, imballaggi alimentari, contenitori per patatine fritte, circuiti elettici, protesi per le anche, filo interdentale. Perfino carta igienica, secondo alcune recenti analisi.
Soprattutto, gli PFAS sono tossici. E divisi in migliaia, se non milioni di diversi composti. Impossibile saperlo con esattezza. Ciò che si sa è che sono pressoché indistruttibili, e capaci di spostarsi anche molto lontano dal luogo in cui sono stati prodotti o utilizzati. Possono raggiungere ogni ambiente: acqua, aria, suolo, sedimenti. Alcuni si accumulano negli organismi viventi e sono presenti nella catena alimentare. Altri, più mobili, sono trasportati e possono raggiungere gli oceani Artico e Antartico.
I rischi sanitari legati all’esposizione agli PFAS
È per questo che ovunque, tutti noi, rischiamo di essere esposti a tali sostanze. E a ciò che esse possono provocare: dall’aumento dei tassi di colesterolo a determinate insorgenze tumorali, dalla diminuzione dei tassi di fertilità a possibili problemi di sviluppo del feto. Ma gli PFAS sono sospettati anche di interferire con il sistema endocrino e immunitario: ad esempio, secondo uno studio dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa), potrebbero essere alla base di una ridotta risposta degli organismi umani ai vaccini.
Questi composti chimici hanno raggiunto una certa notorietà grazie ad un film americano, intitolato Dark Waters (regia di Todd Haynes) e uscito nel 2020. Nella pellicola, Mark Ruffalo interpreta un avvocato statunitense che nel 1998 scoprì i primi indizi di un disastro ambientale nei pressi del gruppo chimico DuPont, a Parkersburg, nella Virginia Occidentale. L’azienda fabbricava Teflon. Sono passati 25 anni da allora, ma poco è stato fatto per limitare la diffusione degli PFAS. Negli Stati Uniti come nel resto del mondo.
Nel frattempo, a nostra insaputa, l’intera Europa è stata contaminata. Un consorzio di 18 testate del Vecchio Continente ha raccolto dati e realizzato una mappa che indica i luoghi nei quali gli PFAS sono presenti, e quelli nei quali si presume lo siano. Un lavoro che occorrerà in ogni caso monitorare e ampliare, viste le dimensioni del problema. A partecipare all’inchiesta sono stati Le Monde (Francia), Ndr, Ndr e Süddeutsche Zeitung (Germania), Radar Magazine e Le Scienze (Italia), The Investigative Desk e NRC (Paesi Bassi), assieme a Knack (Belgio) Denik Referendum (Repubblica Ceca), YLE (Finlandia), Reporters United (Grecia), SFR (Svizzera) Datadista/El Diario.es (Spagna), Watershed Investigations/The Guardian (Regno Unito), Investigative Journalism for Europe, journalismfund.eu e Arena for Journalism in Europe.
20 fabbriche, 17mila luoghi contaminati in Europa
La mappa mostra i luoghi nei quali sono situate le fabbriche di PFAS, i siti nei quali tali composti vengono utilizzati, quelli nei quali è stata già registrata ufficialmente una contaminazione o nei quali si presume sia presente.
Le strutture chimiche che sintetizzano PFAS in Europa sono 20. Altri 232 impianti li utilizzano a vario titolo per fabbricare materiali plastici “altamente performanti”. Ma sono più di 17mila i luoghi nei quali è stata riscontrata una contaminazione. Si tratta di luoghi nei quali sono stati analizzati acqua, suolo o organismi viventi da scienziati e agenzie pubbliche, nel periodo compreso tra il 2003 e il 2023. E nei quali la presenza di PFAS è risultata superiore ai 10 nanogrammi per litro.
A questi si aggiungono altri 21.500 luoghi che si presume siano contaminati. Poiché si tratta di siti nei quali è presente (o lo è stata) un’attività industriale che ha utilizzato o prodotto PFAS. Le basi militari, ad esempio, utilizzano spesso delle schiume anti-incendio che ne contengono. Si tratta perciò di località nelle quali è necessario effettuare verifiche e controlli.
In alcuni casi, l’inchiesta ha individuato luoghi particolarmente inquinati, nei quali su supera la concentrazione di 100 nanogrammi per litro. In questi casi si parla di “hot spots” e ne sono stati identificati ben 2.100 in Europa.
Il caso del Veneto e la maggiore mortalità per Covid delle persone esposte agli PFAS
In Veneto, nel 2021, uno studio condotto dal docente di Endocrinologia dell’università di Padova Carlo Foresta ha dimostrato l’incidenza dell’esposizione agli PFAS sulle risposte immunitarie legate alla pandemia. Secondo quanto riportato dall’agenzia Ansa, «nelle zone più inquinate si è osservata una maggiore gravità dei sintomi e una mortalità da Covid-19 maggiore del 60%».
Inoltre, «nei giovani residenti nella zona rossa è stata riscontrata la presenza di PFAS nel liquido seminale, una diminuzione degli spermatozoi e una riduzione del 10% della distanza ano-genitale, connessa con una riduzione del testosterone. Un terzo dei giovani di 20 anni residenti in zona rossa presenta già osteoporosi e osteopenia alle ossa, a causa dell’azione dei Pfas che impediscono alla vitamina D di attivarsi consentendo l’assorbimento di calcio».
Non a caso, già nel 2020 l’Associazione Italiana Medici per l’Ambiente ha definito la situazione determinata in Veneto dalla contaminazione da PFAS «una delle più gravi emergenze ambientali mai affrontate».
La regolamentazione internazionale
Di fronte ad una situazione che appare drammatica, e che potrebbe far emergere un flagello per ecosistemi e salute umana, quali sono state le contromisure da parte dei poteri pubblici?
La Convenzione di Stoccolma, pubblicata nel 2001, regolamenta l’uso di alcuni inquinanti organici persistenti. Ivi compresi numerosi composti chimici della famiglia degli PFAS. Negli anni, ad esempio, sono stati imposti paletti all’utilizzo dell’acido perfluoroottansolfonico (PFOS), impiegato soprattutto per tessuti, tappeti e carta al fine di renderli resistenti a grasso, olio e acqua. E sono stati vietati l’importazione, esportazione e produzione di acidi perfluoroottanoici (PFOA) come rivestimento impermeabilizzante.
A livello europeo, da tempo (ancorché in grave ritardo) si lavora per cercare integrare la Convenzione di Stoccolma. In particolare è stata avanzata la proposta di una restrizione stringente sugli PFAS da parte di cinque Stati: Svezia, Norvegia, Danimarca, Paesi Bassi e Germania.
In Europa oltre 20 anni prima di cominciare ad inquadrare gli PFAS
La direttiva europea 2020/2184, inoltre, impone limiti alla presenza di PFAS nelle acque utilizzate dai consumatori dei Paesi membri. La normativa si concentra su 20 composti chimici, e impone la limitazione di 0,10 nanogrammi per litro per la somma di tali molecole. Un altro parametro, “PFAS totale” non deve superare gli 0,50 nanogrammi.
Un’ulteriore attenzione è stata rivolta agli PFAS presenti nei materiali che finiscono a contatto con prodotti alimentari, a cominciare dagli imballaggi. Ma non esiste ancora una lista definitiva dei composti chimici utilizzati in tali prodotti. Nel 2020 l’Ocse ha tentato di stabilire un primo elenco. L’Agenzia sanitaria tedesca (BfR), inoltre, ha indicato 12 PFAS presenti in vaschette e contenitori.
Di lavoro, insomma, ce n’è ancora moltissimo. Nel frattempo, le nostre terre, le nostre acque e i nostri organismi continuano ad accumulare agenti inquinanti, in alcuni casi tossici.