La transizione? Per alcuni colossi serve la rivoluzione
Dalla Francia arriva un indice che mette a confronto utili consolidati e costo climatico delle attività. Ecco gli inquietanti risultati
La transizione ecologica, per alcune grandi aziende, dovrà essere in realtà una rivoluzione. Alcuni (troppi) grandi gruppi sono ancora infatti lontanissimi dal raggiungere un grado sufficiente di sostenibilità. E probabilmente, per quanti sforzi possano fare, sono i loro stessi modelli di business e le loro stesse attività ad impedire il raggiungimento di standard compatibili con la lotta ai cambiamenti climatici.
Metà delle grandi imprese sarebbe in perdita se pagasse il proprio impatto climatico
Una conferma arriva in questo senso da un’iniziativa condotta in Francia. La società di consulenza finanziaria Axylia ha infatti inventato un indice, battezzato Vérité 40. Obiettivo, rispondere alla seguente domanda: «Quali imprese rimarrebbero ancora in attivo qualora dovessero pagare tutte le emissioni di CO2 che producono e che non sono compensate?».
Per farlo è stato utilizzato l’Ebitda di ciascuna azienda (ovvero l’utile consolidato prima di interessi, tasse, svalutazioni e ammortamenti) e lo si è ponderato rispetto alle stesse emissioni. I risultati sono inquietanti. La metà delle principali imprese quotate alla Borsa di Parigi, quelle che compongono l’indice CAC40, sarebbe in perdita se pagasse per i gas ad effetto serra dispersi nell’atmosfera.
Transizione: buoni risultati per Essilor, Vivendi e Schneider Electric
Colossi ben noti anche in Italia come Stellantis, TotalEenergies, Airbus, Renault e Michelin sarebbero semplicemente incapaci di pagare il costo reale del loro impatto climatico. Poiché esso supera largamente gli utili. Ciò includendo le emissioni legate ai cosiddetti Scope 1, 2 e 3. Ovvero quelle dirette, quelle indirette e quelle prodotte lungo la catena di valore (al netto, come detto, di quelle evitate o compensate).
I calcoli sono stati effettuati sulla base di un prezzo per ciascuna tonnellata di CO2 emessa basato sui dati del Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici delle nazioni unite (Ipcc). Il dato dei riferimento è di 142 euro per ciascuna tonnellata (per il 2023). «Un modo per garantire trasparenza e per spingere le imprese ad agire», ha spiegato Vincent Auriac, presidente di Axylia.
Così, si scopre che tra le aziende che riuscirebbero a mantenersi in attivo figurano il fabbricante di lenti per occhiali Essilor, la società specializzata in media e comunicazione Vivendi, il produttore indipendente di energia solare Neoen, il colosso dell’alimentare Danone, la società di telecomunicazioni Bouygues e la Schneider Electric.
Airbus, Stellantis e ArcelorMittal in rosso profondo. E le banche non comunicano i dati
Di contro, i dati di alcuni aziende estremamente negativi. Il gruppo aeronautico Airbus presenta un costo legato all’impatto climatico pari all’817% del proprio Ebitda. Per Stellantis, gruppo proprietario di PSA e Fiat Chrysler (che a sua volta controlla anche Lancia, Alfa Romeo, Jeep, Maserati, Abarth e Dodge), si raggiunge il 292%. Il colosso siderurgico ArcelorMittal è al 245%.
A preoccupare ancora di più c’è poi il comparto bancario. E stavolta non per i dati ma per questioni di trasparenza. Secondo quanto riportato dalla stampa transalpina, infatti, numerosi grandi attori della finanza non sono stati inclusi nell’indice per una ragione semplice. Non forniscono dati completi legati alle loro emissioni. Impossibile perciò effettuare i calcoli sui costi della transizione. È il caso in particolare di banche come BNP Paribas (che in Italia controlla la Banca Nazionale del Lavoro), Société Générale o ancora Crédit Agricole (proprietaria di Cariparma e Amundi).