Clima. Tundra e permafrost: i giganti addormentati che ora emettono CO2
Tundra e permafrost con il riscaldamento globale rilasciano gas ad effetto serra in atmosfera. Ma i negoziati sul clima non ne tengono conto
Tutti conosciamo l’importanza delle foreste tropicali per contrastare i cambiamenti climatici e per difendere la biodiversità. Tanti sono i progetti e le organizzazioni non governative che lavorano per la loro protezione, soprattutto in Amazzonia. Meno noto, invece, è un altro ecosistena, per certi versi simile, ma di clima opposto, ovvero freddo. E però altrettanto fondamentale e cruciale per il sistema climatico. Stiamo parlando della tundra artica e del permafrost, il suolo perennemente ghiacciato che stocca al suo interno enormi quantità di CO2 organica accumulata per migliaia di anni.
La tundra ha una sua biodiversità adattata a condizioni climatiche estreme che è anch’essa minacciata dai cambiamenti climatici, come e più di quella tropicale. Il riscaldamento globale è più accentuato infatti nelle zone polari e subpolari, cosa che costituisce un’ulteriore minaccia per questo ambiente. Il suolo della tundra e il permafrost, scongelandosi, possono rilasciare in atmosfera biossido di carbonio (CO2) e soprattutto metano, ancor più potente come gas ad effetto serra. Questo rischio è noto da tempo ma ancora con punti oscuri nei dettagli, da chiarire scientificamente. Inoltre, fatto particolarmente grave, non se ne tiene conto nei negoziati sul clima.
La degradazione del suolo della tundra e del permafrost minaccia anche infrastrutture e insediamenti urbani nelle regioni polari, inclusi gasdotti e oleodotti. E ora emergono nuove importanti evidenze scientifiche al riguardo.
Oltre il punto critico di tundra e permafrost?
Recenti pubblicazioni indicano infatti che sarebbe in corso un cambiamento cruciale nel ruolo della tundra artica nel ciclo del biossido di carbonio. Da sempre questo particolare ecosistema è stato considerato un “pozzo di CO2“, perché la assorbe attraverso la fotosintesi per poi trattenerla nel suolo ghiacciato, il permafrost appunto.
Un recente studio pubblicato su Nature Climate Change, condotto da Anna-Maria Virkkala e altri ricercatori del Woodwell Climate Research Center, evidenzia come gli incendi boschivi stanno influenzando il bilancio della CO2 nelle regioni artiche e boreali. Sebbene queste aree abbiano un crescente potenziale di assorbimento dello stesso biossido di carbonio, infatti, la diffusione degli incendi compensa in parte questo effetto, alterando di fatto la capacità degli ecosistemi di mitigare i cambiamenti climatici.
Nel dettaglio, la ricerca evidenzia che oltre il 34% della regione artica-boreale è diventata addirittura una fonte netta di emissioni di CO2. Se si considerano anche le emissioni dovute agli incendi boschivi, la percentuale sale fino al 40%, il che indica una preoccupante inversione di tendenza. La causa, secondo gli autori, risiede proprio nel riscaldamento globale che nelle zone polari è più intenso a causa del fenomeno dell’amplificazione artica dovuta al feedback dei ghiacci e, nello specifico, del suolo ghiacciato, il permafrost.
Tra effetto albedo e incendi
Una delle autrici del paper, Sue Natali del Woodwell Climate Research Center, ha dichiarato che questo fenomeno è dovuto al cosiddetto “effetto albedo”: la capacità della neve e del ghiaccio di riflettere la luce solare, che si sta riducendo progressivamente a causa della fusione dei ghiacci e del permafrost. Le superfici più scure, come il suolo e la vegetazione, assorbono infatti una maggiore quantità di calore, contribuendo ad aumentare ulteriormente le temperature. A fare il resto è la decomposizione microbica del carbonio immagazzinato nel permafrost, che rilascia CO2 e metano (CH4) in atmosfera.
A completare il quadro di questo fenomeno contribuiscono poi gli incendi boschivi presenti anche nella tundra artica. Come quelli che colpirono il Canada a giugno 2023, facilitati da una pesante ondata di caldo, assurda per l’area. Oltre a rilasciare direttamente enormi quantità di CO2, i roghi alterano le proprietà chimiche del suolo, rendendolo più vulnerabile e riducendo la sua capacità di assorbimento.
Serve un monitoraggio meteo-climatico più approfondito delle regioni polari
Per modellizzare questi fenomeni al computer servono osservazioni. Le misure sono la base, il primo ingrediente di qualsiasi modello, come la farina per il pane. Così i fenomeni qui descritti sono stati attentamente monitorati con torri meteorologiche dotate di strumentazione avanzata a risposta rapida, come anemometri sonici e sistemi di misura della CO2. Sono stati utilizzati oltre duecento siti di osservazione, raccogliendo dati dal 1990 al 2020. Grazie a modelli ad alta risoluzione, pari a 1 km per 1 km, i ricercatori sono stati in grado di mappare con precisione le zone in cui questi cambiamenti di flussi di gas ad effetto serra sono più marcati.
Secondo la professoressa Marguerite Mauritz dell’università del Texas-El Paso, co-autrice dello studio, un altro aspetto che influisce è il prolungamento della stagione di crescita della vegetazione e l’aumento dell’attività microbica nei mesi invernali, proprio a causa dell’aumento delle temperature. Oltre a confermare che la tundra artica sta diventando una fonte di emissioni, i risultati di questa ricerca rappresentano anche un campanello d’allarme su possibili cambiamenti ancora più drastici nel futuro. Indicando la necessità di un monitoraggio meteo-climatico più approfondito delle regioni polari.
Il permafrost delle nostre montagne
C’è grande attività nel mondo scientifico sul tema. Lo dimostra il fatto che, negli stessi giorni, un altro paper scientifico ha approfondito alcuni aspetti del permafrost delle zone di alta montagna, anche alpine. Un altro studio, pubblicato sempre su Nature Communications, rivela poi che il permafrost nelle montagne europee si sta riscaldando a un ritmo molto elevato. Con impatti sulla stabilità dei versanti e sugli ecosistemi.
La ricerca – fa sapere il Sistema Nazionale per la Prevenzione Ambientale (Snpa) – ha analizzato i dati di temperatura del suolo in 64 carotaggi prelevati sulle Alpi, in Scandinavia, Islanda e sulla Sierra Nevada. Hanno partecipato anche le Agenzia di protezione dell’ambiente (Arpa) di Piemonte, Valle d’Aosta e Veneto, fornendo i dati loro stazioni di monitoraggio. Ne è emerso che i trend di riscaldamento a dieci metri di profondità hanno superato in alcuni casi il grado centigrado per decennio, nel periodo 2013-2022. Questo tasso di riscaldamento supera le stime precedenti e si allinea a quelli osservati nelle regioni artiche, notoriamente più vulnerabili.
Tundra e permafrost nei negoziati sul clima
Fin dalla Cop23 di Bonn, nel 2017, alcune organizzazioni non governative e lo scienziato James Hansen fecero presente che l’Accordo di Parigi sul clima non teneva conto del rilascio di gas ad effetto serra da parte del permafrost nel fissare gli obiettivi di 1,5 gradi e 2 gradi. In particolare, il rilascio del metano, da solo, avrebbe potuto portare a un rapido sfondamento del carbon budget (il quantitativo di emissioni che possiamo ancora permetterci di disperdere nell’atmosfera senza sforare gli obiettivi di limitazione della crescita della temperatura media globale).
Alle Conferenze sul clima più recenti l’attenzione sul carbon feedback da tundra e permafrost è aumentata. Se ne è discusso in vari eventi collaterali, in particolare alla Cop28 di Dubai. Manca ancora però un quadro chiaro sul monitoraggio e sulla mitigazione di queste emissioni: non è incluso in nessun documento delle Cop.
Alcuni scienziati e delegazioni propongono di tenere conto del rilascio di gas ad effetto serra dal permafrost nelle Nationally determined contributions (Ndc), gli impegni nazionali di riduzione delle emissioni. Chiedono poi di finanziare adeguatamente le osservazioni meteo-climatiche nonché la ricerca e il monitoraggio delle regioni artiche, facendolo rientrare nei fondi per perdite e danni (loss and damage). Purtroppo l’aria che tira va in tutt’altra direzione sul fronte sia della ricerca scientifica, sempre più sacrificata nei finanziamenti, sia della riduzione delle emissioni serra. Nel frattempo il clima non attende le decisioni politiche: il rischio di superare altri punti di non ritorno è concreto e preoccupante.