Cos’è il permafrost e perché il clima lo sta minacciando

Il permafrost è il suolo ghiacciato che copre il 25% delle terre dell’emisfero settentrionale. Oggi è a rischio. E con esso industrie e intere città

Il permafrost copre il 25% del suolo nell'emisfero settentrionale © Adrian Wojcik/iStockPhoto

Il permafrost è definito come uno strato di suolo congelato in modo permanente. Ovvero la cui temperatura non supera gli zero gradi centigradi per almeno due anni consecutivi. Rappresenta il 25% delle terre emerse nell’emisfero settentrionale, pari a 23 milioni di chilometri quadrati. Due volte e mezzo la superficie di una nazione immensa come il Canada. La stessa origine della parola permafrost lascia intendere una condizione persistente e immutabile. Eppure i cambiamenti climatici in atto sulla Terra stanno provocando ciò che fino a qualche decennio fa era considerato impossibile.

Il permafrost scricchiola

Il permafrost si concentra in Groenlandia, Alaska, Canada e Russia

Facciamo però un passo indietro. Per precisare che esistono due tipi di permafrost, in funzione della loro localizzazione. Esiste quello che viene definito circumpolare, situato a latitudini estreme e che ricopre circa il 20% dell’emisfero settentrionale. Ed esiste il permafrost di montagna, che si forma ad altitudini elevate.

Lo strato di ghiaccio “permanente” può presentare uno spessore variabile, da qualche metro fino a centinaia di metri. Al di sopra, esso è ricoperto da uno strato superiore, considerato “attivo”, ovvero ghiacciato in inverno, ma oggetto di disgelo nella stagione calda.

A livello geografico, il permafrost si concentra in Groenlandia, Alaska, Canada e Russia. Generalmente è presente ovunque più a Nord del sessantesimo parallelo, in una regione, quella artica, nella quale i cambiamenti climatici procedono ad un ritmo due volte superiore rispetto alla media del Pianeta.

Nella regione artica il clima cambia due volte più rapidamente rispetto alla media

«A causa del riscaldamento globale – spiega l’associazione Greenpeace – negli ultimi 30 anni l’area artica coperta di ghiacci si è ridotta in modo sostanziale estate dopo estate, diminuendo la capacità della superficie ghiacciata di riflettere la luce solare (un fenomeno conosciuto come albedo) e aumentando il calore assorbito dal mare, che a sua volta contribuisce allo scioglimento dei ghiacci, in un circolo vizioso molto pericoloso». Come se non bastasse, «il ritiro dei ghiacci agevola lo sfruttamento delle risorse naturali nel mar Glaciale Artico: pesca, trasporto marittimo e trivellazioni fanno gola a molti e minacciano la sopravvivenza di questo fragile ecosistema».

Le attività antropiche già presenti in loco sono infatti moltissime. Un chiaro esempio dei rischi che si corrono è arrivato dalla città di Norilsk, in Russia, il 29 maggio 2020. Una struttura di stoccaggio di carburanti di proprietà del colosso minerario Norilsk Nickel, che poggiava sul permafrost, ha ceduto provocando la fuoriuscita di 20mila tonnellate di diesel. Un danno ambientale incalcolabile. E che potrebbe ripetersi, dal momento che il permafrost ricopre il 65% del territorio russo.

20mila tonnellate di carburante disperse in Siberia per il crollo di un’infrastruttura

Jakutsk, ad esempio, è una città situata nel nord-est della Siberia, capoluogo della Sacha-Jacuzia oltreché principale porto sul fiume Lena. Vi abitano più di 318mila persone. È la più grande città al mondo costruita sul permafrost. Nel corso degli ultimi mesi, proprio in Siberia si sono registrate temperature folli, attorno ai 38 gradi centigradi. E sono divampati numerosi incendi.

Nel mese di giugno, le immagini di un palazzo letteralmente spezzato in due per via del cedimento del suolo hanno fatto il giro del mondo. «Centinaia di città russe sono state costruite all’interno del Circolo polare artico. Se esso cominciasse a fondere, potete immaginare che conseguenze potrebbero esserci. Si tratta di un problema estremamente serio», ha ammesso il presidente Vladimir Putin.

Per mettere in sicurezza il permafrost russo serviranno 100 miliardi di dollari in 30 anni

Secondo uno studio pubblicato da Nature Communications nel 2018, ad essere coinvolti sarebbero circa 3,6 milioni di persone. Nonché il 70% delle infrastrutture attualmente presenti nella zona. Un altro studio russo-americano, risalente al 2016, spiega che con la fusione del permafrost si potrebbe assistere ad un calo della “portanza” del suolo compreso tra il 75 e il 95%, di qui al 2050. Il che significa che la terra sarà sempre meno in grado di sopportare il peso delle costruzioni.

«Nella maggior parte dei casi gli effetti dei cambiamenti climatici non sono stati presi in considerazione correttamente. O non lo sono stati per nulla. Migliaia di persone vivono ora in edifici che potrebbero crollare», ha affermato al quotidiano The Guardian Dmitry Streletskiy, docente di geografia all’università George Washington.

Per non parlare delle infrastrutture industriali, particolarmente presenti nella regione. E fondamentali per l’economia russa. Per renderle sicure, occorrerebbe stabilizzarle. Ma il prezzo sarebbe gigantesco: 100 miliardi di dollari nei prossimi 30 anni, secondo uno studio citato nel 2019 dal New York Times.