«La scienza dice che c’è un’emergenza climatica. È ora che anche le banche lo capiscano»

Intervista a Camilla Perotti di BankTrack, una delle autrici del rapporto Banking on Climate Chaos, sui finanziamenti fossili delle banche

L'immagine è stata realizzata dalla redazione di Valori.it utilizzando Midjourney

Il rapporto Banking on Climate Chaos analizza gli investimenti fossili delle maggiori banche e istituti di credito. Lo fa nei dieci anni trascorsi dall’Accordo di Parigi – quando si decise che anche la finanza dovesse impegnarsi sul clima – a oggi. E i dati sono purtroppo stupefacenti, in senso negativo. Da allora infatti sono stati investiti nel fossile quasi 8mila miliardi di dollari da parte delle 65 più grandi banche del mondo.

Camilla Perotti, climate campaigner di BankTrack, è una delle autrici del report, curato insieme a Rainforest Action Network, Indigenous Environmental Network, Center for Energy Ecology and Development, Oil Change International, Reclaim Finance, Sierra Club e Urgewald. L’abbiamo intervistata per Valori.

Buongiorno Camilla, tu sei una delle autrici del report. Ci racconti come siete riusciti a estrapolare questi dati, e quali sono i significati di questi numeri mostruosi?

Sicuramente questo rapporto è il risultato di un lavoro di squadra fra diverse organizzazioni: nessuna di noi avrebbe potuto analizzare così tanti dati individualmente. Perché purtroppo le transazioni fra le banche e l’industria fossile sono ancora troppo numerose. Come dici tu, i numeri sono mostruosi. Dall’Accordo di Parigi in poi, le maggiori banche del mondo – e quelle europee, statunitensi e giapponesi in primo piano – continuano ad investire sempre di più nell’industria fossile. Come se non avessero ancora ben colto il messaggio che questi investimenti sarebbero dovuti terminare per lo meno nel 2016.

Ancora più impressionante della cifra complessiva è il trend in continua crescita degli investimenti fossili bancari. Nel 2024 sono stati investiti 869 miliardi di dollari, con un aumento di 162 miliardi rispetto al 2021. Quali sono i numeri che ti hanno colpito di più mentre lavoravi all’edizione del 2025 del rapporto Banking on Climate Chaos? E perché?

Fra coloro che hanno contribuito maggiormente, purtroppo, vediamo anche banche che sono spesso dipinte come pioniere nell’adottare politiche restrittive per i loro investimenti. Quelle considerate più progressiste di altre banche. Invece, queste policy interne sono spesso vaghe e lacunose, lasciando ampio spazio tra le righe per nuovi investimenti fossili. Il fatto che, nel 2025, i trend siano in crescita è per me scioccante. Soprattutto se consideriamo che addirittura gli investimenti nell’industria del carbone sono cresciuti notevolmente. Per anni abbiamo pensato che, almeno in Europa, certe battaglie fossero state vinte. Invece oggi l’uso del carbone come fonte energetica è ancora in crescita in larghe parti del mondo. Soprattutto in Asia. Con anche le banche europee in prima fila a finanziare questa espansione.

Le banche sostengono spesso di non avere alternative perché «devono rispondere agli azionisti». Cosa rispondete a questa giustificazione?

È la solita scusa. Una scusa che non ha fondamenti, se consideriamo che ci sono banche che al contrario si sono mosse in senso positivo. E hanno scelto di investire, anche a beneficio dei loro azionisti, in portafogli sostenibili. Dovrebbero essere infatti gli azionisti i primi a chiedere a gran voce che la loro banca non sia cieca di fronte a segnali molto chiari: ogni investimento nel fossile comporta rischi importanti per le banche, sia finanziari che reputazionali. È anche nell’interesse degli azionisti non continuare più su questa strada.

Data per scontata la responsabilità di banche e istituti di credito, quanto incide la politica? A partire dallo scellerato abbandono di ogni tipo di politica green, in primis da parte dell’Europa e degli Stati Uniti?

Purtroppo la politica incide notevolmente. Vediamo come le policy delle banche non sono sufficienti. E anche iniziative volontarie come l’NZBA stanno morendo. Ci vorrebbero leggi chiare che regolino severamente le banche per impedire che queste possano continuare a contribuire all’emergenza climatica. Invece ci ritroviamo in una situazione geopolitica che ha solo incoraggiato le banche a ridurre gli impegni presi, a indebolire i già deboli target che si erano date. Nei primi sei mesi dell’amministrazione Trump abbiamo già visto questi cambiamenti.

Nel rapporto si dà spazio anche alle voci delle comunità colpite da questi progetti fossili. Come le avete raccolte e perché è fondamentale integrarle nel lavoro di ricerca? C’è un caso specifico (progetto, comunità, territorio) che ti ha colpito particolarmente durante la lavorazione del rapporto?

È fondamentale dare voce alle comunità colpite. Perché è necessario che questi investimenti non restino solo numeri. È importante che si vedano gli impatti concreti che questi investimenti hanno su comunità intere, spesso a migliaia di chilometri di distanza dalle sedi di queste banche. Io lavoro personalmente a stretto contatto con le comunità che da vent’anni stanno combattendo (a suon di proteste pacifiche e democratiche) contro il progetto Jsw Utkal in India. Un maxi-progetto che include una ferriera e una centrale elettrica a carbone che rischia di dislocare fino a 40mila persone. Oppure il progetto LNG di TotalEnergies in Mozambico, legato al quale, secondo un reportage di Politico, c’è la strage di più di duecento civili che sarebbero stati uccisi dalle forze di sicurezza impiegate da Total.

Cosa può fare la società civile – cittadini, attivisti, investitori – per esercitare pressione sulle banche?

La cosa più semplice che la società civile possa fare è cambiare banca. Ci sono numerose alternative etiche. Banche che si impegnano ad investire solo in industrie sostenibili e rispettano i propri impegni. Ma, in generale, gli azionisti devono anche essere consapevoli del potere che hanno: se oggi vedono in questo rapporto che la banca in cui hanno i loro risparmi sta contribuendo al caos climatico, possono unirsi e chiedere alla loro banca di cambiare. Perché è nell’interesse degli azionisti stessi che la loro banca non investa più nell’industria fossile.

Se dovessi riassumere in una frase il messaggio che il rapporto Banking on Climate Chaos vuole mandare nel 2025, quale sarebbe?

La scienza è chiara nel dire che siamo in un’emergenza climatica che ci colpisce tutte e tutti, e i risultati li vediamo anche in Italia. È ora e tempo che anche le banche lo capiscano.

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