Francia, una legge contro la fast fashion ma a metà
La Francia prova a regolare la fast fashion, ma la legge salva i big e rischia di proteggere il modello che dovrebbe cambiare
Su Prêt-à-changer abbiamo parlato del tentativo francese di porre un freno alla fast fashion attraverso una legge pensata per penalizzare le aziende che basano i propri profitti su modelli produttivi fortemente inquinanti.
Una legge pensata per fermare Shein, ma non H&M
Il Senato transalpino ha approvato a larghissima maggioranza lo scorso 10 giugno una proposta legislativa molto ridimensionata rispetto alle ambizioni iniziali. Anche se alcune misure sono state rafforzate, nel complesso la legge uscita dal Senato si limita a colpire le grandi piattaforme asiatiche dell’ultra fast fashion, come Shein. L’intento della relatrice del testo, la senatrice Sylvie Valente Le Hir, è chiaro, sottolineano gli osservatori: non si vuole penalizzare i marchi “tradizionali” della moda a basso costo come H&M, Primark o Kiabi. «La moda a prezzi accessibili è importante per i francesi, vogliamo proteggere questi brand», ha dichiarato la senatrice in conferenza stampa prima del dibattito in aula.
Per giustificare questa scelta, la senatrice cita in particolare «i posti di lavoro» e «il dinamismo che queste aziende generano sui nostri territori». Tuttavia, queste stesse aziende «rappresentano oltre il 90% delle vendite in Europa», ricorda la coalizione Stop fast-fashion. «È gravissimo: sono proprio questi marchi ad aver causato tragedie come quella del Rana Plaza», commenta Maud Sarda, direttrice del Label Emmaüs, intervistata da Novethic.
Bonus, malus e pubblicità: cosa prevede davvero la norma
Tra gli articoli più discussi, il sistema di bonus-malus è stato mantenuto, così come gli importi delle sanzioni finanziarie. Si partirà da un minimo di 5 euro a prodotto nel 2025, fino a 10 euro nel 2030. Tuttavia, i criteri su cui si basa il malus restano vaghi, denunciano le associazioni. «Ora il testo si basa su alcuni criteri dell’Eco-score, senza però adottarli integralmente. (…) È grave che un testo sull’impatto ambientale dell’industria tessile non preveda veri criteri ambientali», spiegano.
Una buona notizia: è stato approvato l’emendamento che reintroduce il divieto totale di pubblicità per i marchi della fast fashion. Inoltre, è stato rafforzato il controllo sulla promozione dei prodotti dell’ultra fast fashion. Tutte le collaborazioni tra brand e content creator, «sia retribuite che gratuite», dovranno essere tracciate. È stato introdotto anche un nuovo articolo che prevede una tassa, da due a quattro euro, sui «piccoli pacchi provenienti da Paesi extra-europei».
Un’occasione sprecata per cambiare davvero la moda
Secondo Quentin Ruffat, portavoce di Shein, la regolamentazione dell’industria tessile «funzionerà solo se sarà un’azione collettiva», e non «colpendo un singolo attore». Ha criticato la legge, che a suo avviso imporrà «una tassa di 10 euro per ogni capo venduto entro il 2030» e avrà «ripercussioni sul potere d’acquisto» dei francesi. L’Unione delle industrie tessili (UIT), dal canto suo, ha accolto il testo come «un primo passo», auspicandone l’adozione «rapida», «anche se non del tutto in linea con le nostre aspettative».
«Il testo approvato dal Senato è stato fortemente ridimensionato, al punto da rischiare di diventare una misura protezionista più che una risposta all’urgenza ambientale del settore», denuncia la coalizione Stop fast-fashion in un comunicato. «Serve tornare all’ambizione iniziale: guidare una vera transizione del settore tessile verso pratiche sostenibili e virtuose, che siano anche la chiave per la competitività economica di domani».
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