Il dilemma dell’attivista e la campagna Shut the System
Il dilemma dell’attivista: proteste radicali riducono il consenso verso chi le organizza, ma rafforzano la causa climatica. Ora nasce Shut the System
C’è un concetto che negli ultimi anni è entrato nel dibattito sulle strategie di protesta: il “dilemma dell’attivista” (activist’s dilemma). Con questa espressione, coniata da un gruppo di ricercatori della Stanford University nel 2020, si descrive il paradosso che i movimenti sociali si trovano ad affrontare quando scelgono azioni di protesta radicali: da un lato, infatti, queste attirano l’attenzione dei media e pongono il tema al centro dell’agenda pubblica; dall’altro rischiano di alienare una parte significativa dell’opinione pubblica, che finisce per condannare i metodi e non ascoltare i contenuti. Ricordate le lattine di salsa di pomodoro lanciate sui vetri di dipinti famosi?
Una recente ricerca dell’università del Queensland, in Australia, analizza il cosiddetto “backlash paradox” nell’attivismo climatico: se è vero che azioni spettacolari o dirompenti spesso provocano reazioni di fastidio o condanna, non è affatto detto che questo si traduca in un calo del sostegno alla causa più generale. In altre parole, chi osserva una protesta estrema può anche giudicare negativamente gli attivisti, ma non per questo smette di riconoscere la gravità della crisi climatica o la necessità di agire.
I ricercatori australiani hanno condotto due studi. Il primo ha coinvolto 178 studenti di psicologia in Australia, il secondo un campione politicamente rappresentativo di 511 persone nel Regno Unito. In entrambe le analisi, ai partecipanti è stato chiesto di esprimere le proprie impressioni dopo aver letto descrizioni di proteste climatiche che variavano per tattiche e obiettivi.

Proteste radicali e sostegno alla causa climatica
Sia tra gli studenti australiani che tra i cittadini britannici, i partecipanti hanno mostrato meno empatia e meno capacità di identificazione con i manifestanti radicali, giudicati più “immorali” rispetto a quelli coinvolti in proteste moderate. Il secondo studio, attraverso domande più ampie e dettagliate, ha fatto emergere le opinioni dei partecipanti rispetto agli attivisti per il clima, al movimento in generale e alla crisi climatica. Ed è emerso che le proteste più estreme e dirompenti hanno aumentato la preoccupazione per la crisi climatica e hanno spinto maggiormente all’azione.
«Una cosa che mi ha sorpreso è che, a differenza di studi precedenti sulle proteste estreme in altri contesti di movimenti sociali, non abbiamo riscontrato una riduzione del sostegno alla causa climatica in generale», afferma Jarred Nylund, uno dei ricercatori coinvolti. «Al contrario, il calo di sostegno era diretto specificamente agli attivisti che utilizzavano tattiche dirompenti, non all’azione per il clima in sé».
Allo stesso modo, a sorprendere è il fatto che i partecipanti allo studio non abbiano giudicato in modo diverso gli attivisti e le loro azioni a seconda che le proteste avessero come obiettivo le aziende del settore fossile o il pubblico in generale. «I partecipanti potrebbero aver considerato sia i dipendenti [delle aziende fossili] sia i clienti come persone comuni, né particolarmente colpevoli né del tutto innocenti», spiega Nylund. O forse sottostimano le responsabilità del settore fossile nella crisi climatica…
Shut the System: la nuova campagna contro le banche che finanziano le fossili
Dentro questo quadro si colloca la campagna Shut the System, che, come suggerisce il nome, dichiara apertamente di voler “chiudere il sistema” finanziario che sostiene l’industria fossile. Non semplici azioni simboliche, dunque, ma iniziative di sabotaggio strategico rivolte alle banche e alle compagnie d’assicurazione che continuano a concedere fondi o coprire con polizze le attività legate a petrolio, carbone e gas. L’obiettivo dichiarato è colpire le infrastrutture economiche che rendono possibile la prosecuzione del business fossile. Con evidente ispirazione all’ormai classico testo dell’attivismo climatico “Come far saltare un oleodotto”, di Andreas Malm.
La scelta non è casuale. Da anni, infatti, diversi rapporti e analisi documentano con precisione il ruolo centrale del settore finanziario nel mantenere in vita l’industria fossile. L’edizione 2025 di Banking on Climate Chaos, per esempio, fotografa la situazione con numeri difficili da ignorare: nel solo 2024, i 65 maggiori gruppi bancari mondiali hanno erogato 869 miliardi di dollari a favore dei combustibili fossili. Più della metà – 429 miliardi – è finita a imprese impegnate in progetti di espansione, cioè nuove trivellazioni, nuovi gasdotti, nuove centrali. Dal 2021 a oggi il totale supera i 1.600 miliardi di dollari.
Perché colpire banche e assicurazioni è cruciale
Colpire il sistema finanziario significa quindi intervenire su uno snodo decisivo. Senza finanziamenti e coperture assicurative, infatti, i grandi progetti fossili non possono essere avviati né portati avanti. Per questo gli attivisti di Shut the System definiscono banche e assicurazioni «l’infrastruttura criminale della crisi climatica»: non semplici spettatori, ma attori centrali nel processo che alimenta la catastrofe climatica.
Le loro iniziative si inseriscono in un contesto in cui, nonostante gli impegni di facciata e le campagne di greenwashing, i principali istituti finanziari continuano a garantire sostegno alle imprese più responsabili della crisi. Una contraddizione sempre più evidente, che rende plausibile – almeno dal punto di vista strategico – concentrare le azioni di protesta proprio su questo settore.
Gli attivisti di Shut the System lo fanno “mettendo fuori uso”, per periodi più o meno lunghi, le sedi centrali di questi istituti finanziari. Ciascuno di noi lo può fare scegliendo con cura la banca in cui aprire il proprio conto corrente, il fondo a cui affidare i propri risparmi o l’assicurazione da sottoscrivere.
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