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RINA Italy certificò la fabbrica bruciata con 250 operai. Senza averci mai messo piede

Lo denuncia la Campagna Abiti Puliti: l'impresa genovese garantì la sicurezza della pakistana Ali Enterprises. Un colpo alla credibilità dei sistemi di certificazione

Laboratorio tessile bruciato in un incendio. Fonte: rapporto H&M in Bangladesh, Clean Clothes Campaign, ottobre 2015

È tuttora il più grande disastro di un’industria tessile nel Sud-Est asiatico, secondo solo a quello, ormai tristemente noto, del Rana Plaza. Nell’incendio della pakistana Ali Enterprises morirono più di 250 persone (tra loro anche dei bambini) e una cinquantina rimasero feriti. A rendere ancora più odiosa la vicenda si aggiunge oggi un’ulteriore rivelazione: tre settimane prima dell’incendio, la RINA Italy, impresa di certificazione con sede a Genova, attestò il rispetto da parte dell’azienda degli standard di sicurezza SA8000. Senza aver senza aver visitato i laboratori di Karachi.

A denunciare il comportamento di RINA Italy sono numerose sigle della società civile, che hanno presentato scorso un reclamo formale presso il Punto di Contatto OCSE al ministero dello Sviluppo economico contro la compagnia ligure, appartenente a uno dei colossi multinazionali della certificazione.

«Dalle indagini svolte e dalle testimonianze raccolte – denuncia Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti, una tra le numerose organizzazioni firmatarie del reclamo – si desume che RINA o suoi emissari non hanno mai visitato la Ali Enterprises. RINA infatti ha appaltato l’audit (cioè l’ispezione e la relativa relazione, ndr) a RI&CA, società di certificazione pakistana».

Se i tecnici certificatori di RINA o di RI&CA (Regional Inspection & Certification Agency) – prosegue Lucchetti – avessero ispezionato effettivamente i locali dove le fiamme divamparono «non avrebbero potuto ignorare tutte le gravi irregolarità che hanno portato alla tragedia». Ed è per questo che i sottoscrittori del reclamo ritengono che «l’audit effettuato alla Ali Enterprises sia stato deficitario, falso e ingannevole verso i consumatori, e non sia mai stato sottoposto al necessario confronto con i lavoratori».

Il mezzanino invisibile e gli altri pomi della discordia

Del resto le irregolarità rilevate nell’edificio a rogo avvenuto erano decisamente macroscopiche. Tali infrazioni vengono riportate nella drammatica ricostruzione digitale del Forensic Architecture britannico e nel reclamo. Ma non nell’audit che – il condizionale è d’obbligo – sarebbe stato svolto prima l’incendio.

simulazione digitale dell’incendio prodotta dal Forensic ArchitectureLe infrazioni «si sarebbero rivelate fatali». E includono «un pavimento costruito illegalmente, un sistema di allarme antincendio non funzionante, la presenza di lavoro minorile e un sistema strutturale di lavoro straordinario eccessivo. Il rapporto ha anche falsamente certificato la presenza di diverse uscite di emergenza e sufficiente materiale antincendio, quando in realtà le porte erano chiuse, le uscite bloccate e l’unico estintore disponibile non funzionante».

Considerando poi che la certificazione SA8000, tra le altre cose, dovrebbe garantire:

  • il rispetto dei diritti umani,
  • il rispetto dei diritti dei lavoratori,
  • la tutela contro lo sfruttamento dei minori,
  • le garanzie di sicurezza e salubrità sul posto di lavoro,

i punti su cui RINA, che è accreditata dal SAAS (Social Accountability Accreditation Services), potrebbe offrire delucidazioni non sono trascurabili.

l’edificio della fabbrica tessile Ali Enterprises andato a fuoco nel 2012 – fonte Clean Clothes Campaign

Dal RINA solo un no comment

Eppure la società italiana non rilascia interviste. E senza fare riferimento diretto alle accuse di non aver compiuto effettivamente i sopralluoghi, affida la propria difesa a un comunicato sintetico.

Si trincera dietro generiche ragioni di riservatezza e non specifica dettagli su chi avrebbe svolto le ispezioni (e quando) alla Ali Enterprises. Non solo. Scrive che «l’audit ha avuto risultato soddisfacente. Prove raccolte successivamente all’incendio suggeriscono che, quando esso si è sviluppato, la Ali Enterprises non fosse conforme allo standard SA8000, contrariamente a quanto osservato da RINA due mesi prima dell’accaduto». Insomma, le prove suggeriscono e RINA non ammette alcuna responsabilità.

Tuttavia, a sei anni dal rogo, il processo dei risarcimenti alle famiglie delle vittime e ai sopravvissuti sembra avviato positivamente da parte dei principali committenti di allora. E allora la presentazione del reclamo sembra allargare lo scontro su un altro terreno.

Shahida Parveen perse il marito nel rogo di Ali Enterprises e si è battuta nella campagna per giusti e pieni risarcimenti alle vittime – foto Amar Guriro – fonte Clean Clothes Campaign

Minata la credibilità delle certificazioni?

I firmatari chiedono ovviamente che RINA faccia un mea culpa, presenti delle scuse alle vittime e partecipi ai risarcimenti. Ma questa è solo una parte del problema. E forse nemmeno la principale.

In nome della della sostenibilità della filiera del tessile, prima del rispetto dei diritti e della certezza dei risarcimenti in caso di incidente, si pretende infatti maggiore trasparenza e condivisione dal sistema delle certificazioni.

L’audit della fabbrica di Karachi non è consultabile dalle parti coinvolte. Ciò – secondo Clean Clothes Campaign – ha rallentato l’accertamento di responsabilità e cause del rogo. «Noi l’abbiamo richiesto diverse volte – ricorda Lucchetti – ma non ci è mai stato fornito adducendo ragioni di confidenzialità contrattuale. Questo è uno dei punti salienti dell’istanza di reclamo. Il fatto che gli audit siano soggetti a obblighi di riservatezza tra i contraenti. L’audit normalmente ce l’ha in mano l’azienda che l’ha commissionato e quella che è stata certificata.

A parte il caso del Bangladesh, in cui abbiamo dimostrato che è possibile fare degli audit pubblici, trasparenti e reperibili da tutti gli interessati, la prassi è quella adottata per Ali Enterprises. La procedura messa in campo per il Bangladesh a seguito del crollo del Rana Plaza è stata imposta solo grazie alla campagna di pressione internazionale seguita al disastro di Dacca».

Il crollo del Rana Plaza in a Dhaka, in Bangladesh il 24 aprile 2013, fece  1129 vittime tra i lavoratori tessili.
Il crollo del Rana Plaza in Bangladesh il 24 aprile 2013. 1129 vittime tra i lavoratori tessili. Di rijans – Flickr: Dhaka Savar Building Collapse, CC BY-SA 2.0

Anche i consumatori contro RINA: «Garanzia ingannevole»

C’è quindi un problema di opacità, che riguarda anche chi vorrebbe indossare capi prodotti nel pieno rispetto dei diritti umani e del lavoro. Ed è perciò che a sottoscrivere il reclamo, oltre a ong, sindacati e all’associazione che riunisce le persone colpite dal disastro (Ali Enterprises Factory Fire Affectees Association – AEFFAA), c’era il Movimento Consumatori italiano.

reclamo contro RINA per incendio Ali Enterprises - screenshot sito Movimento Consumatori - 14-9-2018 - pulito
reclamo contro RINA per incendio Ali Enterprises – screenshot sito Movimento Consumatori – 14-9-2018

Secondo il suo segretario generale Alessandro Mostaccio, nel rilasciare la certificazione SA8000 alla Ali Enterprises, la società genovese «ha fornito una garanzia ingannevole ai consumatori. Ha così gettato una pesante ombra su tutto il sistema di certificazione e sulla sua capacità di contribuire a rendere l’industria più sicura e giusta». Questa, conclude, «è una violazione del diritto fondamentale dei consumatori a prodotti sicuri, come contemplato dall’articolo 2 del Codice Italiano del Consumo».

Parole nette che, di fatto, chiamano la porzione di cittadinanza che acquista e indossa i capi prodotti nel sudest asiatico a schierarsi. A dire la propria rispetto a una campagna che da anni punta ad avere una filiera sostenibile della moda internazionale. Vedremo se, alla fine, potrà essere di nuovo la spinta dal basso dei consumatori a introdurre il cambiamento. E, finalmente, maggiori diritti.