Cina, chimica e fast fashion ci copriranno di rifiuti tessili
Vestiti di bassa qualità realizzati con materiali difficili da riciclare. La moda compulsiva mette in crisi il circuito del riuso e prepara una bomba ambientale
Abiti usati, la materia prima cresce in volume ma crolla la qualità. Questo in estrema sintesi lo scenario che contraddistingue oggi il second hand clothes market, il mercato degli indumenti di seconda mano. Che vale circa 4 miliardi di dollari l’anno e risente inevitabilmente delle grandi trasformazioni avvenute negli ultimi anni nel settore tessile.
Le trasformazioni del settore vengono accelerate dal boom del fast fashion – con le sue devastanti ricadute sociali e ambientali – che quest’anno ha sancito la fine di un’epoca: il 2018 sarà infatti il primo anno nel quale più della metà delle vendite di capi di vestiario e calzature avrà avuto origine al di fuori di Europa e Nord America. A rivelarlo sono gli analisti di McKinsey nel rapporto The State of Fashion 2018 secondo il quale le principali fonti di crescita del settore sono i mercati dei Paesi emergenti, soprattutto Asia-Pacifico e Latino-America.
Ma la produzione globale di abbigliamento in crescita galoppante (è raddoppiata tra il 2000 e il 2015) non è l’unica tendenza del comparto moda. Nello stesso periodo il numero medio di volte in cui un capo viene indossato prima dello smaltimento è diminuito del 36%. Un dato impressionante che, guardando alla Cina, arriva addirittura al 70%. L’altra novità riguarda i materiali: il poliestere ha infatti scalzato il cotone, diventando il tessuto più utilizzato dall’inizio del ventunesimo secolo.
Tutte grandi trasformazioni che si rivelano gatte da pelare per l’economia del tessile usato. Forniscono infatti prodotti più complicati da gestire al mercato degli indumenti destinati al riuso o a quello degli scarti da riciclare in materie prime seconde.
Abiti usati: materiali difficili da riciclare
Il primo problema è legato all’aumento percentuale delle fibre sintetiche nei tessuti. Gli indumenti al 100% in poliestere, al di là delle valutazioni di pregio e qualità, sono infatti relativamente facili da riconvertire in materiale riutilizzabile. Ben diverso è il caso di miscele con fibra naturale, ad esempio cotone e poliestere. Questi mix, ad oggi, sono essenzialmente non riciclabili: le due componenti infatti non possono essere separate a basso costo.
D’altra parte, se è vero che il cotone tessuto “in purezza” può essere trasformato in nuovi indumenti, per realizzare un capo d’abbigliamento pronto per la vendita anche le fibre di cotone devono essere miscelate con nuova fibra di cotone vergine. Dopo il processo di riciclo infatti diventano assai più corte. Tant’è che nella linea di jeans H&M in cotone riciclato il materiale riciclato è solo il 20% del totale. Il restante 80% è cotone vergine.
Aspetti problematici sempre più diffusi e ben noti agli addetti ai lavori. «Prendiamo i classici jeans. Una volta erano 100% cotone» spiega Carmine Guanci, vicepresidente di Vesti Solidale, cooperativa sociale specializzata nella raccolta di indumenti usati. Ciò apriva molte strade per il loro riuso: «addirittura in Francia sono stati sviluppati degli impianti dove avviene una lavorazione per recuperare il tessuto e produrre un materiale di isolamento termico e acustico che si chiama Métisse, ignifugo, 100% cotone».
Oggi i jeans hanno invece al loro interno, per la maggior parte, un 3-4% di elastene, che ignifugo non è e sta creando moltissimi problemi a questi stabilimenti di riciclaggio. «Quando si hanno dei materiali poliaccoppiati, la separazione ha dei costi che spesso rendono antieconomico il riciclo rispetto all’acquisto di materia vergine».
Troppi vestiti e di scarsa qualità: costi e rifiuti crescono
E poi c’è un problema di quantità e qualità generale. «Da un punto di vista quantitativo – prosegue Guanci – noi abbiamo incrementato la raccolta rispetto all’anno scorso (arrivando a circa 15mila tonnellate). E questo accade perché si è abbassata la qualità degli indumenti che troviamo nei nostri contenitori.
La raccolta è finalizzata agli indumenti che possano essere riutilizzati, quindi con maggior valore. Ma abbiamo grandi difficoltà a smaltire quella frazione che non è riciclabile come materia, né riutilizzabile come capo d’abbigliamento. Una frazione via via crescente. Gli impianti sono saturi e i costi stanno aumentando» conclude Guanci.
Scarti tessili pronti a invadere discariche e inceneritori
Ed ecco il paradosso: da un lato l’enorme quantità di capi d’abbigliamento prodotti permetterebbe una percentuale di recupero sufficiente ad alimentare il second hand market nei Paesi occidentali. Ma la composizione degli abiti porta a un aumento impressionante dei rifiuti tessili da smaltire senza profitto. E, se la tendenza proseguirà, il recupero diventerà antieconomico.
Attualmente circa il 70% degli indumenti usati raccolti viene riutilizzato, il 25% si trasforma in fibra e filati, il 5% finisce bruciato nei termovalorizzatori. Ma in Occidente la situazione è già decisamente più preoccupante. «Nei Paesi in cui il consumismo eccessivo è predominante – denunciava nel 2017 il rapporto Fashion at the crossroad di Greenpeace – la stragrande maggioranza degli abiti a fine vita viene smaltito insieme ai rifiuti domestici finendo nelle discariche o negli inceneritori. È questo ad esempio il destino per più dell’80 per cento degli indumenti gettati via nell’UE».
Situazione analoga negli USA dove ogni cittadino metterebbe nella spazzatura circa 3,2 chilogrammi di vestiti e altri tessuti l’anno. In pratica ogni anno, calcola l’Agenzia federale per la Protezione ambientale, più di 10 milioni di vestiti finiscono in discarica, occupandone il 5% dello spazio totale. Una mole di rifiuti pari a 30 volte il peso dell’Empire State Building di New York. E intanto l’industria del riciclaggio tessile americana riesce a processare al massimo il 15% dei rifiuti tessili post-consumo (PCTW).
Una frazione di rifiuto prodotta consumando tanta energia e risorse ambientali. E che crescerà nel futuro: l’Unione europea, nell’ambito della nuova direttiva sulla economia circolare, impone infatti a tutti i Paesi la raccolta differenziata del tessile entro il 2025. Indumenti usati. Ma anche accessori e prodotti dismessi verso cui il mercato del riciclo non ha interesse.