Petrolio a orologeria. Iran e Arabia Saudita spaventano l’economia globale
La tensione permanente tra i due colossi del Medio Oriente è una minaccia per un mondo troppo dipendente dal petrolio. Chi rischia di più? La Cina
La piccola grande escalation cripto-bellica registrata a settembre tra Iran e Arabia Saudita sembra lanciare un chiaro messaggio: il mondo, libero o meno che sia, non può continuare a dipendere dal petrolio. Ne è convinta l’ex primo ministro neozelandese Helen Clark, intervistata sul tema dalla CNBC. E il suo ragionamento, obiettivamente, non fa una piega. «Non è forse curioso – si è chiesta la Clark – che buona parte delle nostre forniture petrolifere provenga dalla regione più instabile del mondo?». Domanda retorica, specie nel contesto contemporaneo. Il settore delle energie rinnovabili ha fatto «progressi enormi», ha aggiunto il direttore globale della divisione sustainability research di BNP Mark Lewis; «non si può combattere in eterno contro l’economia». Fine della storia, dunque.
Petrolio alle stelle, mercato nel panico
Solo che la storia è molto complicata. L’immagine pugnace della retorica pare appropriata. Pur scambiandosi feroci latrati di sfida, è vero, Riyad e Teheran sono rimaste buone; ma sui mercati, al tempo stesso, ha iniziato a scorrere il sangue.
Ricapitolando: il 14 settembre gli impianti petroliferi sauditi di Abqaiq e Kharais, dove opera il colosso statale Saudi Aramco, al centro di un tuttora misterioso programma di collocamento in borsa, sono stati attaccati con l’ausilio di droni e missili cruise. Arabia Saudita e Stati Uniti hanno accusato l’Iran che, da parte sua, ha seccamente smentito ogni coinvolgimento. L’attacco, stando alle rivendicazioni, potrebbe essere stato condotto dalle milizie yemenite vicine al regime di Teheran, ma le circostanze delle operazioni non sono state chiarite del tutto.
L’impatto, in ogni caso, è stato severo. Le prime stime ipotizzavano addirittura un dimezzamento della produzione nazionale con una perdita giornaliera di 5,7 milioni di barili. Nei giorni immediatamente successivi il prezzo del petrolio è salito vertiginosamente prima che la revisione della conta dei danni calmasse gli animi dei trader più agitati. Già 48 ore dopo l’attacco Riyad ha fatto sapere di poter ripristinare la piena capacità produttiva entro la fine del mese. Il valore di mercato del barile è rapidamente sceso a livelli normali.
Pessimo auspico per l’economia globale
Molto rumore per nulla, dunque? Non proprio. Perché l’attacco al petrolio saudita, pur non provocando conseguenze disastrose, ha evidenziato in primo luogo il doloroso nervo scoperto rappresentato da un sistema produttivo potenzialmente fragile. «Si percepisce probabilmente una maggiore vulnerabilità dell’offerta saudita e l’aumento del rischio politico in Medio Oriente» ha spiegato nei giorni successivi all’attacco Didier Saint-Georges, managing director e membro del Comitato Investimenti di Carmignac.
«Non un buon auspicio per la fiducia dei consumatori a livello mondiale – ha aggiunto – oltre che per il loro potere d’acquisto qualora il prezzo del petrolio dovesse subire un “premio per il rischio” duraturo». Come dire: in un mondo a crescente mood recessivo, ritrovarsi con un barile più costoso sarebbe particolarmente problematico. Soprattutto, verrebbe da aggiungere, per le economie avanzate – Europa in testa – che soddisfano buona parte del fabbisogno energetico con le importazioni.
Petrolio: Cina vittima di guerra
In circostanze normali, la risalita del prezzo del petrolio può essere sintomo di un buon momento per l’economia globale. Il mondo cresce, consuma più energia e fa così salire la domanda. Ma se l’economia del Pianeta, al contrario, vive una fase di pericoloso rallentamento e a provocare il rialzo del barile, in questo caso, sono fattori geopolitici, allora la situazione si fa decisamente più problematica. Specie se la locomotiva del mercato globale, come in questo caso, è anche il principale importatore di petrolio nonché, disgraziatamente, anche il miglior cliente dell’Arabia Saudita.
Ovviamente stiamo parlando della Cina, principale spettatore interessato del conflitto latente tra Riyad e Teheran. Nel 2018, Pechino ha consumato mediamente 13,5 milioni di barili al giorno rispetto ai 12,8 dell’anno precedente. E i timori, allo stato attuale, non mancano. La Cina, ha scritto Business Insider, potrebbe essere la vittima principale dell’attacco agli impianti sauditi. Ma problemi analoghi potrebbe averli anche il Giappone che nel 2018, secondo il Washington Post, avrebbe importato da Riyad 31,2 miliardi di dollari di petrolio (addirittura mezzo miliardo in più rispetto a Pechino).
La linea del fronte nelle acque di Hormuz
Luogo strategico ed epicentro del conflitto è lo Stretto di Hormuz, controllato dall’Iran, dove negli anni si sono registrati vari incidenti. In caso di conflitto questo angusto spazio marino particolarmente trafficato che separa il Golfo Persico dal Golfo dell’Oman e dal Mare Arabico potrebbe trasformarsi in una vera e propria linea del fronte.
Considerando i volumi in transito, parliamo del principale checkpoint petrolifero del mondo. Secondo i dati della U.S. Energy Information Administration, nel 2018 le acque dello stretto sono state attraversate in media ogni giorno da 20,7 milioni di barili (3,5 in più rispetto al dato del 2014), pari a circa un quinto del petrolio consumato ogni 24 ore dal Pianeta.
Ad Hormuz, in pratica, passa quasi tutto il greggio prodotto dalle potenze della regione visto che solo Arabia Saudita ed Emirati Arabi possiedono al momento oleodotti in grado di bypassare la rotta marina. Ma si tratta di una soluzione parziale: gli stessi oleodotti sauditi, per capirci, possono trasportare al massimo 5 milioni di barili al giorno, pari a circa la metà della produzione attuale di Riyad. Ah, quasi dimenticavamo: il 76% dell’oro nero in transito nelle acque dello stretto finisce, ovviamente, in Asia.
Petrolio in orbita?
In tutto questo, l’Arabia Saudita ha gettato benzina sul fuoco. In una recente intervista, il principe Mohammed bin Salman ha prefigurato le tragiche conseguenze di un malaugurato conflitto armato con l’Iran. Lo stato di guerra nel Golfo, ha spiegato, porterebbe al «collasso totale dell’economia globale». Quanto al petrolio, iniziano a circolare le prime stime sulla soglia d’allarme. Secondo Steven Kopits, direttore della società di consulenza Princeton Energy Advisors, per provocare una recessione a livello globale il prezzo del barile dovrebbe salire fino a quota 110 dollari, un livello doppio rispetto alle cifre attuali. Il leitmotiv degli analisti, per ora, è chiaro: sia l’Iran che l’Arabia Saudita avrebbero troppo da perdere in caso di conflitto aperto, ipotesi quest’ultima che escluderebbe lo scenario di guerra. La speranza di tutti, soprattutto dei cinesi, è che eventuali future escalation non smentiscano la previsione.