Petrolio in borsa. Perché non dobbiamo fidarci dell’Arabia Saudita

L'Arabia Saudita vuole quotare in borsa la compagnia petrolifera nazionale. Ma il mondo, forse, ha meno fame di greggio. E i conti non tornano

Matteo Cavallito
© Inde/Pixabay
Matteo Cavallito
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Né Supercoppa né diritti umani. Ad attirare l’attenzione degli osservatori sull’Arabia Saudita, oggi, è una questione meno nobile ma decisamente più impattante: l’ingresso in borsa di Aramco, il gigante del petrolio nazionale. Una vecchia storia – se ne parla dal lontano 2016 – che oggi sembra vedere finalmente il suo orizzonte.

La data prevista, ed è ora una sostanziale certezza, è il 2021. Tutti convinti, tutti d’accordo. Le rinnovate garanzie offerte da Riyad, tuttavia, non fugano i dubbi di sempre. La convenienza dell’operazione resta discutibile. E i conti, secondo qualcuno, proprio non tornano. Ma andiamo con ordine.

Dal maxi bond alla Ipo

Saudi Aramco è la compagnia di Stato che si occupa dell’estrazione e della commercializzazione del petrolio nazionale. Nei suoi piani più ravvicinati c’è l’acquisizione del colosso della raffinazione Saudi Basic Industries Corp, o Sabic, attualmente controllato dal fondo sovrano nazionale.

L’operazione punta a diversificare il business della compagnia ed è considerata una tappa fondamentale nel processo che condurrà all’attesa Ipo (initial public offering) ovvero al collocamento in borsa.

La spesa prevista per l’acquisto di Sabic si aggirerebbe sui 70 miliardi di dollari. Parte della cifra verrebbe reperita sul mercato tramite un’emissione obbligazionaria. Il collocamento dei bond costringerà l’Arabia Saudita a diffondere informazioni più dettagliate sui conti di Aramco. Un’operazione trasparenza utile a preparare il terreno per il grande evento del 2021.

Saudi Aramco è la più grande compagnia petrolifera del mondoUn collocamento da $2.000.000.000.000

Ma quanto vale Saudi Aramco? Secondo Ryad circa 2 trilioni di dollari, una cifra che – se confermata dalla Ipo – trasformerebbe l’azienda nella prima public company del mondo. Per essere chiari parliamo di duemila miliardi di biglietti verdi.

Più del Pil dell’Italia, oltre il doppio della capitalizzazione di Apple – la più ricca, ad oggi, tra le corporation quotate in borsa.

E ancora: quasi tre volte il valore di giganti come Amazon o Google; quattro volte il market cap di Facebook; sei volte il dato di Exxon, prima in graduatoria tra le major petrolifere. Ma non tutti sembrano particolarmente convinti. Liam Denning, opinionista di lungo corso per Bloomberg, Wall Street Journal e Financial Times, ad esempio, parla da tempo di una stima non credibile. E il nodo, manco a dirlo, è legato alle previsioni di medio e lungo periodo sull’andamento del barile.

Riserve record

Una recente indagine di DeGolyer & MacNaughton, una società di consulenza di Dallas, ha alzato le stime sui volumi di petrolio in mano ad Aramco. La compagnia, sostengono gli americani, può contare su riserve complessive per 268,5 miliardi di barili, 2,2 miliardi in più rispetto ai dati ufficiali. Ce n’è abbastanza per sostenere gli attuali ritmi di produzione per i prossimi 70 anni, nota il quotidiano britannico Telegraph. Ma il punto è capire quanto il mercato, ovvero il mondo, sarà in grado di assorbire questa ricchezza energetica. Ed è qui che iniziano i problemi.

Ombre sul petrolio

In una lunga intervista concessa a Bloomberg nel maggio 2018, il vice principe del Regno Mohammed bin Salman aveva espresso un forte ottimismo. Da qui al 2030, aveva dichiarato, la domanda globale di petrolio dovrebbe crescere ad un tasso annuale «compreso tra l’1 e l’1,5%».

La previsione, però, appare esagerata. Ad un ritmo simile, notava proprio l’analisi di Denning, si arriva ad un picco di domanda giornaliera pari a 120 milioni di barili nel 2030. Un livello ben superiore, ad esempio, al picco previsto dalla società di ricerca McKinsey che parla di meno di 100 milioni di barili nello stesso anno. Il calcolo di McKinsey si basa sull’ipotesi di una significativa diffusione delle auto elettriche che, secondo la stessa società, tra circa un decennio dovrebbero coprire da sole circa il 30% delle vendite globali dei nuovi veicoli (con vette del 50% in Cina, Usa ed Unione Europea).

L’Arabia Saudita ha un problema di deficit

E poi c’è il nodo del prezzo. Valutare Aramco 2 trilioni di dollari, sostiene ancora Denning, significa ipotizzare, tra le altre cose, un petrolio ben più caro di quello attuale. Per giustificare la cifra, in pratica, occorre prefigurare uno scenario di lungo periodo con il barile a quota 80 dollari. Chissà; oggi, in ogni caso, siamo lontani.

L’Arabia Saudita, nel frattempo, fa conti con il presente. Nel 2017, il Pil si è contratto dello 0,7%; nel 2018 si è registrata una ripresa ma non basta: per ridare fiato all’economia il governo ha promesso di incrementare la spesa pubblica e – complici gli attuali prezzi del greggio – il deficit è destinato a crescere. Per pareggiare il gap di bilancio, sostiene un’analisi della banca saudita Al-Rajhi Capital, servirebbe un 2019 fortemente rialzista, con il prezzo medio del barile attorno agli 84 dollari. Troppo. Anche per gli inguaribili ottimisti di Aramco.