Pechino, auto, Brexit. E la manifattura europea va giù

La manifattura europea è nell'occhio del ciclone: il rallentamento della Cina, la crisi dell'auto e l'effetto hard Brexit possono scatenare la recessione

Matteo Cavallito
Un impianto di produzione della BMW a Oxford, Regno Unito. Quello dell'auto è il settore simbolo della crisi industriale europea © Department for Business, Innovation and Skills/Flickr
Matteo Cavallito
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La Cina è vicina e, quel che è peggio, non è nemmeno da sola: un vero guaio per la manifattura europea, potenziale epicentro di una nuova crisi. Parlare di “tempesta perfetta” è forse eccessivo. La convergenza dei fattori, però, è quanto di peggio si potesse immaginare. Almeno a giudicare dalle previsioni dello scorso anno, quando i problemi avevano iniziato ad emergere senza travolgere tuttavia gli auspici di risoluzione. Germania e Italia, ovvero il cuore della manifattura continentale, sono in sostanziale stagnazione. E mai come questa volta, forse, le ragioni immediate della crisi sono da ricercare altrove.

Triplice minaccia per la manifattura

Nel mirino c’è la congiuntura globale. Il rallentamento cinese penalizza tutti e l’Europa non fa eccezione. Ma a pesare è anche il terremoto No Deal, destinato ad abbattersi proprio sulla manifattura continentale e britannica. Ecco dunque il temuto double shock congiuntura globale + Brexit contro cui l’Europa non sembra avere difesa, scrive il Telegraph, chiamando in causa le note polveri bagnate della politica monetaria. Ma non è tutto, purtroppo.

Non bastassero le tensioni globali (e Boris Johnson), ci si mette anche la crisi strutturale del settore simbolo della produzione industriale: il sempre più sofferente comparto auto. Tre indizi, insomma, non faranno una tempesta. Ma bastano e avanzano per fare una recessione.

La Cina va sempre più piano

Tutto parte da Pechino, è ovvio. Pechino rallenta e lo fa almeno per due ragioni. Da un lato ci sono i fattori fisiologici: la Cina non è più un mercato emergente in senso stretto, tende a trasformarsi – per lo meno nelle intenzioni – in una grande nazione di consumatori e non solo di produttori (tradotto: seguendo un modello di crescita nel quale la domanda interna pesa sempre di più). Continuare a crescere ai ritmi del passato – quando l’espansione del Pil sfiorava la doppia cifra percentuale – non è più possibile.

E poi ci sono i fattori contingenti: la guerra commerciale con gli USA, fatta di alti e bassi ma tuttora lontana da una concreta risoluzione. In questo contesto l’economia cinese è cresciuta del 6,3% nei primi sei mesi dell’anno, ma nella seconda parte del 2019, ha ammesso il premier Li Keqiang, si dovrebbe registrare una correzione al ribasso.

Germania e Italia vittime di Pechino

Il risultato finale è duplice: calo delle importazioni e svalutazione dello yuan. Due fattori, sostiene Andrew Kenningham, capo economista di Capital Economics ripreso da Business Insider, che penalizzano la manifattura tedesca generando un effetto domino sull’intero continente. E se è vero, come sostiene Kenningham, che il -1,5% su base mensile registrato dalla produzione industriale tedesca a giugno sia da ascrivere agli effetti della guerra commerciale Washington-Pechino, è lecito pensare che le preoccupazioni investano a questo punto l’intero Continente.

La Cina, 95 miliardi di dollari di beni importati pari al 7,1% dell’export tedesco è il terzo partner commerciale della Germania. Che, a sua volta, rappresenta la prima destinazione delle esportazioni italiane (12% della nostra produzione in uscita). Alle condizioni attuali, insomma, una crisi generale della manifattura europea è quasi inevitabile.

No Deal Brexit: un disastro per la manifattura

Da Pechino a Londra, seguendo lo schema, il passo è breve. In caso di No Deal sulla Brexit, infatti, Europa e Regno Unito patirebbero conseguenze economiche molto gravi. Gli scambi commerciali potrebbero addirittura dimezzarsi e la manifattura su entrambe le sponde della Manica potrebbe farsi carico di costi aggiuntivi per decine di miliardi di euro. Parola dell’Institut der deutschen Wirtschaft (Istituto dell’Economia Tedesca, IW) un think tank di Colonia, intervenuto sul problema nell’ottobre dello scorso anno. Previsioni pesantissime che nello stallo attuale dei negoziati rischiano ora di concretizzarsi.

L’ipotesi è che l’entrata in vigore delle barriere tariffarie (i dazi) e non (tutti gli altri strumenti restrittivi al libero commercio) implicherebbero già nel breve periodo costi ulteriori per circa 40 miliardi di euro: 14,6 miliardi a carico delle imprese britanniche, 25,8 per le aziende continentali.

Londra sarà la scintilla della recessione europea

A patire le conseguenze peggiori, rilevava ancora l’analisi, sarebbero soprattutto le grandi aree industriali tedesche, per le quali gli scambi con il Regno Unito contribuiscono al 5% del Pil, il valore più alto tra tutte le regioni d’Europa.

La manifattura tedesca, insomma, appare come la vittima annunciata di questo scenario. Anche se alla luce della difficile congiuntura odierna a rischiare l’effetto domino è l’intero continente. «In passato si riteneva che la UE potesse gestire le conseguenze di un No Deal» ha spiegato, ripreso dal New York Times, Angel Talavera, economista presso l’istituto di ricerca Oxford Economics di Londra. «Oggi aumentano le preoccupazioni sul significativo indebolimento dell’area euro e si teme che una hard Brexit possa essere il fattore scatenante di una recessione».

Crisi a quattro ruote

Nell’ipotesi del think tank tedesco a subire i danni maggiori dalla bufera No Deal sarebbe ovviamente il settore numero uno della manifattura teutonica: quel comparto auto che per Berlino genera da solo 158 miliardi di dollari di esportazioni, pari al 12% del totale.

Secondo l’IW le aziende tedesche delle quattro ruote sarebbero costrette a sobbarcarsi da sole circa 1/5 dei dazi complessivi del Regno Unito post Brexit. Un ulteriore problema per un settore che vive una crisi di lungo corso alimentata da un calo generale della domanda, dagli effetti delle politiche ambientali e dall’aumento della produzione interna in alcuni Paesi sempre meno dipendenti dall’import (la Cina, ma guarda un po…). E il problema, ovviamente, è nell’impatto potenzialmente enorme della crisi di un settore che, secondo l’Association des constructeurs européens d’automobiles, contribuisce al 6,8% del Pil UE ed impiega 13,3 milioni di lavoratori, ovvero il 6,1% della forza lavoro continentale.

Nel 2018 le immatricolazioni di auto nuove in Germania sono calate di circa un terzo; quelle italiane hanno segnato un ribasso del 3,1%. I dati 2019 sono critici: secondo l’ANFIA (Associazione Nazionale Filiera Industria Automobilistica) le immatricolazioni dei primi 8 mesi dell’anno registrano in Europa un calo tendenziale del 3,2%. I cinque Paesi leader del settore – Germania, Francia, regno Unito, Italia e Spagna – hanno perso il 2,6% del mercato. «Sul fronte della domanda mondiale di auto – si legge nell’ultimo rapporto dell’associazione di categoria – il 2018 ha registrato il primo segno negativo dal 2009, -3% sul 2017, a 67,8 milioni di unità (esclusi i light trucks area Nord America). Visto l’andamento negativo di molti mercati, NAFTA (Usa, Canada e Messico, ndr), Cina e UE, il 2019 chiuderà nuovamente con il segno meno».