Armi in Messico, l’Italia contribuisce a massacri e sparizioni
In Messico, circolano almeno 20mila pistole e fucili "sottratte" al controllo governativo. Una su sette è italiana e viene usata per far sparire le persone scomode
«Le armi della società Beretta sono state usate nella scomparsa di mio figlio e dei suoi 42 compagni di classe e oggi non sappiamo ancora chi ucciso quegli studenti o dove siano. Non è possibile che i produttori di armi continuino a non voler riconoscere il danno che hanno arrecato ai nostri figli e al nostro popolo». La testimonianza è di Antonio Tizapa, il padre di Jorge Antonio Tizapa Legideño, una delle vittime della strage ancora senza responsabili che il 26 settembre 2014 ha insanguinato la città di Ayotzinapa, nello stato del Guerrero, nel sud del Messico. «Spero che le aziende che producono armi non continuino a venderle al Messico, perché ci stanno facendo scomparire».
La punta più clamorosa di un iceberg fatto di misteri, commerci più o meno legali e un odioso export bellico che coinvolge il nostro Paese: il maggiore esportatore di armi verso il Messico sono, anche per contiguità geografica, gli Stati Uniti. Ma subito dopo, c’è l’Italia.
Un fiume di armi
L’analisi è contenuta in un nuovo, dettagliato studio realizzato dai ricercatori statunitensi e italiani e pubblicato in tre lingue. Secondo gli analisti, l’Italia sta esportando da anni decine di migliaia di armi altamente letali alle forze messicane coinvolte in violazioni dei diritti umani, corruzione e violenza diffusa.
«Negli ultimi dodici anni – spiega a Valori Carlo Tombola, dell’Osservatorio Permanente Armi Leggere, OPAL – l’Italia è stata il secondo maggiore fornitore di pistole, fucili e munizioni non militari al Messico. Due terzi delle armi importate dal Paese centroamericano provengono dagli Stati Uniti. Ma la metà della quota restante è Made in Italy. In pratica un’arma da fuoco su sette è tricolore. In media, le aziende italiane hanno venduto e immesso sul mercato messicano diecimila pistole e revolver e 1.100 fucili ogni anno. Nello stesso periodo, il Messico è stato il secondo maggior importatore latinoamericano di armi militari italiane».
Comanda Beretta
Chi guadagna di più dall’export bellico italiano in Messico ha un nome ben preciso: è il gruppo Beretta infatti a dominare le vendite di armi militari (valutate almeno 50 milioni di euro dal 2007 ad oggi), oltre ad essere uno dei principali attori nel mercato delle armi civili.
In particolare, il gruppo di Gardone Val Trompia ha venduto al governo messicano:
- 17.150 fucili d’assalto automatici SCP 70/90 (calibro 5,56×45 NATO) e 23mila parti di ricambio relative, in particolare caricatori da 30 colpi che consentono il tiro a raffica alla cadenza di 670
colpi al minuto e a una distanza superiore ai 300 m; - 19mila fucili d’assalto ARX 160 (calibro 5,56×45 NATO) e 16.000 parti di ricambio;
- 650 lanciagranate GLX 160, adattabili sia al fucile 70/90 che all’ARX 160;
- 303 fucili di precisione Sako TRG 22;
- 3.030 pistole calibro 40;
- 505 fucili calibro 22LR;
- 505 pistole calibro 22LR;
- 13.130 pistole calibro 9×19;
- 2.020 pistole calibro 9 corto o.380 auto;
- 1,010 fucili Stoeger calibro 12.
Un flusso continuo
Non solo. Tutti i marchi e gli impianti di Beretta hanno contribuito a questo flusso di armi: Beretta, Benelli, Stoeger, Sako, fabbricate in Italia, Finlandia, Turchia e negli Stati Uniti. Grazie a questi ulteriori marchi, il management del gruppo può organizzare la vendita all’estero di armi senza lasciare tracce statistiche in Italia, evitando le strette limitazioni della legge italiana sul controllo dell’export. Per
fare questo, Beretta può servirsi dei trasferimenti infragruppo tra le sue fabbriche italiane (situate a Gardone Val Trompia e Urbino) e quelle situate in Turchia (Stoeger Silah Sanayi di Istanbul), e Finlandia (Sako di Riihimäki).
Ma oltreoceano vengono esportate dall’Italia anche grandi quantità di munizioni. Una società italiana, Fiocchi Munizioni, ha esportato 270 tonnellate di prodotti in Messico nei dodici anni considerati, per un controvalore di 1,5 milioni di euro.
Il ruolo scomodo di governo ed esercito (anche nelle stragi)
In Messico, le armi italiane entrano nel mercato attraverso l’esercito. E il criterio previsto dalle leggi messicane rende il governo ancor più responsabile dei massacri che stanno insanguinando il Paese: «in Messico – spiega Tombola – il ministero della Difesa detiene il monopolio della vendita di armi. Quindi ha un ruolo preciso nel decidere chi può comprarle e chi no». Tramite il governo quindi, le armi non finiscono solo al personale militare ma anche alle polizie statale e municipale e ai privati. In questa filiera c’è un aspetto ancor più sconcertante: dal 2006 od oggi, più di 20mila di quelle armi sono “sparite“. Ovvero: rubate o scomparse. E molte di esse sono cadute nelle mani di criminali.
Ma le armi in mano alla criminalità spesso non sono più pericolose di quelle in mano alle polizie dei 32 Stati della federazione messicana.
Tra gli utenti finali di armi Beretta troviamo corpi polizieschi con documentate violazioni dei diritti umani e collusioni con gruppi criminali organizzati. «Ad esempio, secondo la documentazione processuale i poliziotti municipali che nel 2014 hanno attaccato e fatto sparire con la forza i 43 studenti presso Ayotzinapa (Guerrero) erano armati con fucili d’assalto Beretta SCP 70/90. Ricevute di vendita di armi compilate da SEDENA indicano che oltre 6.500 armi Beretta sono state vendute alla polizia di Guerrero tra 2007 e 2014, nonostante le documentate prove di gravi abusi commessi dalla polizia locale e la sua collusione con gruppi della criminalità organizzata».
Le norme italiane e Ue imporrebbero lo stop all’export
«Le esportazioni di armi italiane e la mancanza di controlli sull’uso finale stanno alimentando il fuoco della violenza in Messico. L’Italia dovrebbe sospendere le esportazioni di armi in Messico» ha aggiunto.
A spingere verso questa direzione, esistono sia norme italiane sia comunitarie. La legge italiana 185/1990, concernente i soli trasferimenti di armi e munizioni militari, nega la licenza di esportazione «quando manchino adeguate garanzie sulla definitiva destinazione dei materiali».
Inoltre, la Posizione Comune dell’UE afferma che, quando «esiste un chiaro rischio che la tecnologia o le attrezzature militari da esportare possano essere utilizzate per la repressione interna», le licenze di esportazione dovrebbero essere negate. Ciò è particolarmente vero per i paesi con gravi violazioni dei diritti umani. «In effetti, gli utenti finali di armi importate sono spesso le polizie con abusi documentati di diritti umani, riconosciute colpevoli di colludere con gruppi criminali organizzati» conclude Tombola.