Myanmar, le banche che investono in società in affari con la giunta militare
Nove colossi bancari controllano capitali di società che fanno affari nel Myanmar, nonostante il potere sia ormai in mano ai militari
Nove grandi banche internazionali sono accusate di contribuire, di fatto, ai business del Myanmar. Nonostante la nazione sia, dal 1 febbraio scorso, controllata da una giunta militare che ha preso il potere attraverso un colpo di Stato.
Un rapporto pubblicato alle fine dello scorso mese di maggio dalle organizzazioni non governative BankTrack e Justice for Myanmar ha acceso, infatti, i riflettori sugli investimenti detenuti dagli istituti di credito nel capitale di numerose imprese. Che sono, scrivono le Ong, «potenzialmente implicate nelle violazioni dei diritti umani perpetrate nella ex-Birmania».
Da JPMorgan a UBS e BNP Paribas. Ma in testa ci sono le banche giapponesi
L’accusa è pesantissima, poiché la giunta militare ha avviato una repressione contro la popolazione che ha provocato la morte di 825 persone e l’arresto di altre 5.400. Le banche in questione gestiscono complessivamente più di 24,4 miliardi di dollari di azioni di 18 società direttamente o indirettamente legate al regime.
Nella lista figurano le giapponesi Mitsubishi UFJ Financial Group e Sumitomo Mitsui Financial Group, le americane JPMorgan Chase, Morgan Stanley, Bank of America e Wells Fargo, le svizzere UBS e Crédit Suisse e la francese BNP Paribas.
Nel rapporto, BankTrack e Justice for Myanmar precisano che, in particolare, gli istituti finanziari possiedono partecipazioni in sette aziende che presentano «una relazione diretta e di lungo corso con l’esercito birmano. O con aziende controllate dai militari già prima del 1 febbraio». Le altre imprese in questione intrattengono invece «relazioni commerciali con imprese di Stato, passate sotto il controllo dei generali dopo il colpo di Stato».
Nell’elenco delle aziende l’italiana Eni
Va detto che i dati relativi al primo gruppo – quello più compromesso – sono meno importanti rispetto al secondo (del quale fa parte anche l’italiana Eni). Si tratta di imprese che operano essenzialmente nel settore immobiliare (Tokyo Tatemono, Daiwa House Industry), nel turismo (Hilton) e nel comparto degli idrocarburi (Posco).
Le due Ong hanno invitato le banche a cedere tutte le loro partecipazioni «immediatamente».