ActionAid: fonti fossili nel Sud del mondo, da 9 banche 3.200 miliardi di dollari
Uno studio di ActionAid accende i riflettori sull'insostenibilità dei finanziamenti delle grandi banche nei 134 Paesi del Sud del mondo
Sappiamo che la crisi climatica che stiamo subendo è la logica conseguenza dell’emissione di gigantesche quantità di gas serra in atmosfera. E sappiamo anche con precisione quali sono le attività antropiche che li emettono, questi gas serra. Nel 2019 al primo posto c’era l’energia (fossile) col 34%; al secondo l’industria col 22%; al terzo il settore agricolo, forestale e la gestione del territorio (15%). La reazione dovrebbe essere altrettanto logica: chiudere le porte ai combustibili fossili e all’agrobusiness intensivo e insostenibile. Nella realtà, però, accade tutto il contrario. Un nuovo report di ActionAid, lanciato a livello globale il 4 settembre, accende i riflettori sulle grandi banche che si ostinano a finanziare questi due settori nei 134 Paesi del Sud del mondo. Le cifre sono da capogiro.
La vera leadership climatica significa abbracciare l’abbandono dei combustibili fossili e di altri fattori che determinano i cambiamenti climatici. Ma, ma come mostra questo importante rapporto di ActionAid, è impossibile realizzare questo cambiamento quando le banche finanziano costantemente coloro che causano i maggiori danni.
Vanessa Nakate, attivista ugandese
I 3.200 miliardi di dollari per i combustibili fossili nel Sud del mondo
Nei sette anni trascorsi dalla firma dell’Accordo di Parigi sul clima, nove grandi banche internazionali hanno foraggiato i combustibili fossili nel Sud del mondo con un totale di 3.200 miliardi di dollari.
Le cifre più consistenti arrivano dagli istituti asiatici, prima fra tutte la Industrial and Commercial Bank of China con 146,2 miliardi. Ma anche le europee si difendono bene: HSBC è a quota 63,6 miliardi, BNP Paribas e Société Generale superano i 36 miliardi ciascuna. Tra le banche esaminate, molte si sono impegnate a decarbonizzare il proprio portafoglio di finanziamenti entro il 2050. Dimenticandosi, però, di adottare policy adeguate per trasformare questo impegno in realtà.
Ma a chi arrivano questi soldi? A grandi società cinesi che lavorano col carbone, per esempio. Tra cui la State Power Investment Corporation che, da sola, ha incassato la bellezza di 203,9 miliardi a partire dal 2016. Ma nella lista dei beneficiari c’è anche Trafigura, società che si occupa di trading di materie prime. E compagnie del gas e del petrolio tra cui Saudi Aramco, Petrobras, Eni, Exxon Mobil, BP e Shell.
Il silenzio sull’impatto climatico dell’agrobusiness
Sempre nello stesso periodo, le grandi banche analizzate da ActionAid hanno stanziato 370 miliardi di dollari per i maggiori colossi agricoli che operano nel Sud del mondo. In questo comparto, le cifre – tra Europa, Asia e Stati Uniti – si aggirano sullo stesso ordine di grandezza. Così, le tre maggiori banche americane (JPMorgan Chase, Bank of America e Citigroup) si attestano tutte tra i 13 e i 14 miliardi di dollari ciascuna. Ma la più generosa è l’inglese HSBC, a quota 17,2 miliardi. Il conteggio peraltro è parziale, perché riguarda un ristretto campione di istituti. Ed esclude per esempio quelli olandesi, molto propensi a sostenere l’agrobusiness (con i 10 miliardi di Rabobank e i 7,8 di ING Group).
Sorride Bayer, la multinazionale farmaceutica tedesca che nel 2018 ha acquisito Monsanto, nota per avere messo in commercio il contestatissimo glifosato. A partire dal 2016, infatti, Bayer ha ricevuto la bellezza di 20,6 miliardi di dollari di finanziamenti per le sue operazioni nel Sud del mondo. Cifre inferiori, ma comunque di tutto rispetto, sono andate a ChemChina (Syngenta), COFCO Group, Archer-Daniels-Midland (ADM) e Olam Group.
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Se di emissioni si discute tanto, almeno a parole, sul ruolo dell’agrobusiness la consapevolezza è ancora molto più acerba. Per non dire inesistente. Tra le banche studiate da ActionAid, nessuna ha una policy per favorire l’agroecologia o limitare i finanziamenti all’agricoltura industriale. Esistono al massimo policy su singoli prodotti, come l’olio di palma o la soia. Peccato, però, che esse facciano perno su sistemi di certificazione che hanno già mostrato falle evidenti. Carenti, o del tutto assenti, le policy che affrontino l’impatto climatico degli allevamenti di manzo (il cui ruolo nella deforestazione in Amazzonia è conclamato) o dei composti agrochimici, come i fertilizzanti a base di azoto.
È anche una questione sociale, ricorda ActionAid
Scegliendo a chi destinare il proprio denaro, le banche prendono posizione a favore di un modello di sviluppo. Che, finora, è stato tutto fuorché sostenibile. Un precedente studio, riferito sempre al periodo 2016-2022 ma su scala globale, aveva calcolato i finanziamenti erogati alle fonti fossili e quelli per le fonti rinnovabili. Il confronto è impietoso: 93% contro 7%. Non esistono studi simili che mettano a paragone l’agricoltura industriale e l’agroecologia, ma è palese che i rapporti di forza siano altrettanto sbilanciati. Se non di più.
La difesa del clima – e quindi del Pianeta – sarebbe già un motivo sufficiente per cambiare rotta. Ma, ricorda ActionAid, non è l’unico. In gioco c’è anche una questione di equità sociale. L’agricoltura intensiva schiaccia i piccoli coltivatori; i combustibili fossili si estraggono e si lavorano mediante miniere, trivellazioni, oleodotti e altre infrastrutture che hanno un pesante impatto sul territorio e chi lo abita. E che – oltre al danno, la beffa – nell’arco di qualche anno potrebbero diventare obsolete. Da qui una lunga serie di conseguenze economiche, sanitarie, ambientali, politiche e sociali che gli abitanti dei Paesi del Sud del mondo hanno imparato a conoscere bene.