Dovremo dire addio ai pannelli solari made in Germany?

Uno dei più grandi stabilimenti per la produzione di pannelli solari di tutta Europa potrebbe chiudere ad aprile

Una fabbrica di pannelli solari della Meyer Burger © meyerburger.com

Meyer Burger, azienda svizzera leader nella produzione di pannelli solari, si prepara a chiudere lo stabilimento di Freiberg in Germania – uno dei più grandi di tutta Europa – per ampliarsi negli Stati Uniti. Lasciando a casa circa 500 persone. O, almeno, è quello che potrebbe decidere a fine febbraio, secondo quanto si legge in un comunicato stampa sul sito dell’azienda.

Lo stabilimento era stato aperto appena tre anni fa.  Le ragioni di una chiusura così precoce sono da ricercarsi nei pessimi risultati finanziari. Ovvero nei circa 120 milioni di euro di perdite registrate nel 2023, dovute – tra le altre cose – anche al mancato utilizzo di tutta la capacità produttiva degli stabilimenti tedeschi.

Le misure protezionistiche americane e la concorrenza cinese

Tra i fattori che hanno determinato le perdite dell’azienda c’è quella che nel comunicato viene identificata come una «distorsione senza precedenti nel mercato solare europeo». Ovvero l’”invasione” del mercato europeo da parte del solare cinese a basso costo. Dovuta al combinato disposto delle restrizioni commerciali imposte da USA e India, e dalla sovracapacità produttiva cinese. Con la chiusura del mercato americano, infatti, i prodotti del solare cinesi si sono riversati in Europa. Causando un crollo dei prezzi non più sostenibile per le realtà produttive locali.

Il comunicato punta il dito contro le politiche industriali europee. O meglio, contro l’assenza di una politica industriale europea. E contro l’assenza di politiche tariffarie a tutela del mercato dalla concorrenza cinese. Tanto che l’azienda dichiara che preferisce focalizzarsi sulla produzione americana. Dove il mercato dei pannelli solari è in crescita. Ma anche – e forse soprattutto – dove sono in vigore misure protezionistiche e l’Inflation Reduction Act (IRA), il maxi-piano di investimenti varato da Joe Biden nel 2022. Che ha messo a disposizione generosi fondi proprio per il fotovoltaico, rendendo molto più conveniente produrre negli USA.

A rischio la strategia europea per l’addio alle fossili (e alla Cina)

A rendere più equa la competizione tra produttori locali e cinesi contribuirà (forse), il Carbon Border Adjustment Mechanism. Ovvero una sorta di dazio sulle emissioni di CO2 dei prodotti importati all’interno dell’Unione Europea. Un sistema creato per evitare la concorrenza sleale di produttori stranieri – che devono rispettare normative meno stringenti in tema di emissioni inquinanti – all’interno della stessa Ue.

La questione centrale non è tanto la chiusura di uno stabilimento per la produzione di impianti per l’energia solare. L’azienda, infatti, si concentrerà sulla produzione negli stabilimenti americani. Il punto, piuttosto, è che l’Europa perderebbe uno stabilimento importante per alimentare la produzione di energia da fonti rinnovabili. E per ridurre la sua dipendenza dalle fossili. Andando in questo modo a mettere a rischio il raggiungimento degli obiettivi climatici di riduzione delle emissioni.

In più, così facendo, aumenterebbe ancora la sua dipendenza da produttori stranieri, dalla Cina in particolare. Leader mondiale indiscusso nella fabbricazione di sistemi per la produzione di energia dal sole (produce oltre l’80% dei pannelli solari a livello mondiale).

Ed è anche per questo che la Commissione Europea lo scorso anno ha proposto il Net Zero Industry Act. Ovvero un provvedimento legislativo – strettamente collegato al Green Deal – volto proprio a rafforzare la produzione europea di tecnologie utili per raggiungere le zero emissioni nette. Peccato che, come sempre, prima di vedere arrivare in porto il provvedimento ci vorranno anni. Sperando che nel frattempo l’industria europea non sia già tutta morta (o emigrata).