Africa Climate Summit, il continente vuole prendere in mano il suo destino

Dal summit di Addis Abeba arriva la svolta: l’Africa vuole guidare la transizione verde, chiedendo una finanza climatica equa e davvero sostenibile

Andrea Capocci
© UN Climate Change
Andrea Capocci
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L’Africa non vuole più recitare il ruolo della vittima nella lotta ai cambiamenti climatici. Non perché non stia pagando un caro prezzo a siccità e alluvioni, ma perché rimanere in attesa dell’aiuto dei Paesi ricchi finora non ha portato risultati. Perciò, ora intende rimboccarsi le maniche e assumere la parte del protagonista. 

Questo è il messaggio che arriva da Addis Abeba dove lo scorso 7 settembre il secondo Africa Climate Summit – 25mila partecipanti nei 23 padiglioni dell’Addis International Convention Center – ha adottato la “Addis Ababa declaration on media, climate, peace, security and justice“. È una dichiarazione che ribalta la narrazione dominante in altri vertici internazionali come le Cop targate Onu. Uno dei temi caldi nelle conferenze mondiali annuali è quello delle risorse da investire nell’adattamento ai cambiamenti climatici nei Paesi a basso reddito: mentre sulla carta l’obiettivo degli investimenti globali è fissato a 300 miliardi di dollari l’anno, nei fatti le risorse sono finora arrivate sempre con molto ritardo rispetto alle promesse.

Una finanza climatica al servizio dell’Africa, che non indebiti i Paesi poveri

«La finanza climatica deve espandere il suo raggio d’azione, essere predicibile e trasparente per affrontare gli urgenti bisogni di adattamento dell’Africa, soprattutto in contesti fragili e conflittuali, senza trasformarsi in un ulteriore carico debitorio», si legge dunque nella sesta delle «raccomandazioni chiave» della Dichiarazione. Finora, al contrario, molti prestiti diretti verso i Paesi africani comportano interessi sul debito che finiscono per strangolare, più che aiutare, i bilanci nazionali. «I tassi di interesse pagati dai governi africani sono spesso superiori a quelli che pagano i grandi emettitori dei Paesi ricchi, e svuotano le casse statali mentre siccità e inondazioni continuano a drenare risorse», scrive il think tank Power shift Africa che ha sede a Nairobi (Kenya).

La Dichiarazione (nella raccomandazione 1) pone l’accento sulla necessità di aumentare gli investimenti proprio per l’adattamento ai cambiamenti climatici, «garantendo strategie guidate dalle comunità che riducano il rischio e la vulnerabilità, rafforzino la resilienza e prevengano lo spopolamento, con particolare attenzione ai contesti fragili e colpiti da conflitti».

Il testo collega inoltre la riduzione dei rischi ambientali alla prevenzione dei conflitti, alla costruzione della pace e all’azione umanitaria (raccomandazioni 2-5): prioritario dunque fermare le guerre e le disuguaglianze strutturali nei confronti di alcuni gruppi sociali, in primo luogo donne e categorie marginalizzate. Quindi, nella settima raccomandazione, si afferma l’importanza dell’informazione libera per garantire trasparenza e contrasto alla disinformazione. L’ottava enuncia infine l’allineamento degli accordi africani a quelli presi in sede Onu.

Road to Belém

I Paesi africani chiedono 50 miliardi l’anno per la transizione verde

Le prospettive di sviluppo green del continente portano con sé anche molte contraddizioni. Il programma Green Legacy del governo etiope avviato nel 2019 prevede la piantumazione di 7 miliardi tra alberi, piante agricole e ornamentali ogni anno, e finora secondo i dati ufficiali ha piantato circa quaranta miliardi di alberi. Il presidente kenyano Ruto, che aveva ospitato la prima edizione del summit climatico africano, aveva avanzato una promessa simile: quindici miliardi di nuove piante in dieci anni. Ma nel 2023 ha rimosso il divieto al disboscamento delle foreste. 

Anche le raccomandazioni di Addis Abeba potrebbero finire così. La dichiarazione segnala comunque l’intenzione del continente di prendere in mano il suo destino. Su iniziativa del primo ministro dell’Etiopia Abiy Ahmed, l’incontro ha sancito la nascita dell’Africa Climate Innovation Compact e dell’African Climate Facility, con l’obiettivo di raccogliere investimenti per 50 miliardi di dollari l’anno per stimolare l’innovazione e la ricerca di soluzioni ai diversi problemi posti dall’adattamento. Le maggiori realtà finanziarie africane hanno stabilito un accordo di cooperazione per rendere operativa l’Africa Green Industrialization Initiative, con lo sblocco di 100 miliardi per lo sviluppo di energie rinnovabili e industrie «smart».

Ad Addis Abeba era presente anche l’Italia. Il nostro governo ha confermato l’impegno nel Fondo Climatico Italiano, che oggi ammonta a 4,2 miliardi di euro di cui il 70% da destinare all’Africa. Anche in questo caso non mancano le contraddizioni. Diversi progetti finanziati dal Fondo, in realtà, hanno favorito l’Eni, la principale azienda italiana nel settore dei combustibili fossili, e la sua filiera produttiva legata ai biocarburanti.

Solare, foreste e minerali critici: le risorse per la transizione

«Solitamente, il racconto dell’Africa nei summit globali inizia con le cose che ci mancano: soldi, tecnologie, tempo», ha detto Ahmed nel suo intervento al summit. «Stavolta iniziamo con quello che abbiamo», ha proseguito, citando «la popolazione più giovane al mondo», «l’area in cui l’energia solare cresce più velocemente» e «gli ultimi grandi depositi di biossido di carbonio del Pianeta: le foreste, le zone umide e le coste».

A questo deve aggiungersi l’abbondanza sul continente africano di giacimenti di minerali critici per la green economy, cioè per i chip, i pannelli solari e le batterie. Nel continente si estrae il 91% del platino, il 46% dell’ittrio, il 35% del cromo. Le maggiori riserve di cobalto sono in Repubblica democratica del Congo, quelle di litio sono in Zimbabwe. Oggi sono sfruttate soprattutto da multinazionali straniere ma potrebbero diventare una fonte di sviluppo endogeno e «verde».

L’Africa vuole produrre anche i propri pannelli solari

Lo sviluppo dell’energia solare in Africa oggi è sostenuto, ma affidato alla reimportazione di prodotti finiti dall’estero, in special modo dalla Cina. Secondo un rapporto della società di analisi indipendente Ember (Regno Unito), i dati sulle importazioni dei pannelli solari verso i Paesi africani mostrano che la potenza installata annualmente è triplicata tra il 2023 e il 2025, raggiungendo i 15 gigawatt, 4 dei quali nel solo Sudafrica. Se si esclude questo Paese, la potenza installata è addirittura quadruplicata nello stesso periodo. «Il dato più sorprendente è che ben 25 Paesi africani hanno importato almeno 100 megawatt negli ultimi dodici mesi: nell’anno precedente erano stati 15», scrive il rapporto. In alcuni Paesi la crescita è velocissima: in Algeria, le importazioni sono aumentate di 33 volte nel solo 2025, di 8 in Zambia, di 7 in Botswana

In termini assoluti, dopo il Sudafrica e la Nigeria, l’Algeria è diventata il terzo Paese importatore nel continente. Attualmente, la gran parte dei pannelli arrivano in Africa dalle industrie cinesi, ma nel continente sta aumentando anche la capacità produttiva. Marocco e Sudafrica riescono a produrre annualmente una quantità di pannelli solari equivalenti a 1 gigawatt l’anno per ciascun Paese. L’Egitto però potrebbe diventare un nuovo hub per la produzione: nel Paese si stanno realizzando nuovi impianti produttivi delle compagnie EliTe Power, Sunrev Solar e Masdar. La produzione di pannelli dovrebbe arrivare a 5 gigawatt nel 2026 e a 9 negli anni successivi.

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