Alcune riflessioni sull'euro
L’Euro è sbagliato quindi fuori dall’Euro? L’Euro è sbagliato. Tiene legate insieme economie diversissime per forza economica, tassi di inflazione, competitività e produttività, senza ...
L’Euro è sbagliato quindi fuori dall’Euro?
L’Euro è sbagliato. Tiene legate insieme economie diversissime per forza economica, tassi di inflazione, competitività e produttività, senza che nell’UE esistano meccanismi di riequilibrio o compensazione efficaci. In breve, l’Italia si ritrova una valuta troppo forte, la Germania troppo debole rispetto a quelli che sarebbero i fondamentali delle rispettive economie. La Germania può esportare grazie a una moneta sottovalutata, l’Italia e gli altri Paesi della periferia europea vedono al contrario i propri conti con l’estero peggiorare sempre di più.
Non potendo aggiustare i cambi, tali squilibri si risolvono sui costi di produzione, e tra questi, principalmente sul costo del lavoro. Semplificando, se non puoi svalutare la moneta devi “svalutare” stipendi e diritti di lavoratrici e lavoratori per tornare competitivo. Negli slogan del governo, la soluzione passa dalla diminuzione del cuneo fiscale, ovvero diminuire il costo del lavoro agendo sulla leva fiscale. In realtà, essendo tale intervento del tutto insufficiente, l’unica strada è un calo degli stipendi e un aumento della precarietà.
Ecco spiegata austerità, perdita di diritti, aumento della disoccupazione. Con l’austerità diminuisce la spesa pubblica ma soprattutto si ha un aumento della disoccupazione, il che porta lavoratrici e lavoratori ad accettare condizioni di lavoro peggiori, permettendo all’Italia di recuperare almeno in parte il gap di competitività con il centro dell’UE e la Germania in particolare.
La conseguenza sembra essere semplice: se l’euro è sbagliato, usciamo dall’euro. Torniamo alla lira (o ad altra valuta, non importa certo il nome), permettendo alla nostra moneta, in un regime di cambi flessibili, di svalutarsi e a quella tedesca di rivalutarsi. Questo significa per l’Italia esportazioni più semplici e importazioni più care, ovvero un riequilibrio della bilancia dei pagamenti (e in particolare del conto delle partite correnti). Secondo alcune stime, se ci fosse un cambio fluttuante e non bloccato la lira naturalmente si svaluterebbe di un 20-30% (alcuni ipotizzano fino al 50%) rispetto al valore attuale dell’euro. All’opposto il marco tedesco si rivaluterebbe di un 30% circa. Questo significherebbe per l’Italia (il secondo Paese manifatturiero d’Europa proprio dopo la Germania) un vantaggio competitivo enorme rispetto ai tedeschi.
In estrema sintesi, è questa la posizione di molti “no euro” che chiedono l’uscita dalla moneta unica come elemento fondamentale per uscire dalla crisi, o addirittura secondo i quali “l’euro è la causa principale della crisi”. Un’affermazione che sembra dimenticare, o per lo meno sottovalutare, come sia un sistema finanziario ipertrofico che si è trasformato in un gigantesco casinò ad averci trascinato nella situazione attuale. Se non si mettono in campo regole severe a partire da uno stretto controllo sui movimenti di capitale, potremmo ragionare in euro, in lire o in sesterzi, ma continueremmo a essere in balia dello stesso casinò speculativo. Stiamo guidando un’automobile su cui scopriamo che è montata una bomba ad orologeria al posto del motore. Possiamo preoccuparci di fare il pieno di benzina e non di gasolio, ma probabilmente non cambierà molto.
In questo senso sono la finanziarizzazione dell’economia e le crescenti diseguaglianze di reddito e di ricchezza le “cause principali della crisi”, non l’euro che più propriamente è semmai uno dei fattori che contribuiscono ad aggravarla e che rende più difficile uscirne. Questo non è però il problema centrale. Anche ammettendo che l’euro sia alla base di tutti i problemi attuali, anche affermando che l’euro sia sbagliato, la domanda oggi deve essere: uscirne permetterebbe di risolvere gli attuali problemi o ne creerebbe altri anche peggiori?
Come uscirne?
Il primo punto riguarda il percorso per un’eventuale uscita. Vanno considerati non solo i rischi di un “referendum consultivo non vincolante” sulla permanenza nell’euro (non entriamo nel merito giuridico della sua fattibilità), ma più in generale quelli di una qualsiasi campagna di pressione o iniziativa dal basso per costruire consenso intorno all’uscita dall’euro.
Nell’UE vige la libera circolazione dei capitali. Posso prendere i miei risparmi depositati presso una banca o un gestore italiani e spostarli in una qualsiasi banca o gestore di un altro Paese. Mettiamo allora che la posizione “no euro” inizi a guadagnare consensi. Questo può avvenire perché vincono i “no” in un eventuale referendum consultivo o perché i partiti “no euro” guadagnano consensi o per qualsiasi altro motivo che possa spingermi a pensare che da qui a breve l’uscita dall’euro possa diventare reale.
Posso prendere i miei risparmi e affidarli a un gestore o banca di un altro Paese dell’Eurozona, mettiamo in Germania. Se l’euro rimane in piedi non ho perso nulla (tranne pochi euro di commissioni bancarie). Se invece si torna a marco e lira, ecco che i miei risparmi in Germania verranno cambiati in marchi, che si rivalutano del 30%. A quel punto decido se tenerli li o se riportarli in Italia, dove la lira si è svalutata del 30%. Senza fare nulla, ho praticamente raddoppiato i miei risparmi rispetto all’eventualità di tenerli fermi in Italia (se prima erano 100 euro, in marchi “varranno” 130 e in lire 70). Se buona parte dei risparmiatori (e in primo luogo le fasce più ricche della popolazione che hanno liquidità da spostare senza problemi) seguono questo ragionamento, il rischio evidente è una gigantesca fuga di capitali, corsa agli sportelli bancari e prosciugamento finanziario dell’Italia.
La situazione sarebbe se possibile ancora peggiore per i nostri titoli di Stato. In caso di uscita dall’euro tali titoli verrebbero ridenominati in lire, e quindi svalutati del 30%. Il problema può non essere così rilevante per un risparmiatore italiano, che vede tutto diminuire contemporaneamente della stessa percentuale e non subisce quindi impatti. Ma un investitore statunitense o giapponese dovrebbe accettare di perdere il 30% del proprio investimento, nel momento in cui provasse a rivendere Bot e Btp (un tedesco anche di più per ricambiare il suo investimento in marchi). Questo significa che al minimo accenno di un successo dei “no euro” tali investitori scapperebbero dall’Italia e andrebbero a investire in altri mercati (magari proprio in Germania, se c’è la possibilità che la moneta si rivaluti). Dovrebbero essere abbastanza chiari i rischi di una fuga degli investitori esteri sullo spread e sulla capacità di rifinanziare il debito pubblico. Un’uscita dall’euro dovrebbe quindi probabilmente andare di pari passo con una ristrutturazione e rinegoziazione del debito pubblico italiano. Se in assoluto non è detto che una ristrutturazione del debito pubblico sia negativa, ed è anzi auspicata da diversi economisti, abbastanza chiaramente il modo migliore per arrivarci non appare una subitanea fuga degli investitori esteri che ci lasciano con il cerino in mano.
Per questo motivo, se si volesse uscire, evidentemente andrebbe fatto in maniera diametralmente opposta: il più segretamente e velocemente possibile. [Anche le ricerche che propongono percorsi di uscita dall’euro riconoscono l’importanza di questo aspetto. Il paper “Leaving the euro – A practical guide”, di Capital Economics, come primo punto segnala che “non sarà possibile fare sapere dei preparativi se non per un tempo breve. Il ministro delle Finanze, il Primo ministro, il governatore della Banca Centrale e poche altre persone in posti chiave dovrebbero quindi incontrarsi per discutere e pianificare l’uscita in segreto”. Come conciliare tale necessaria segretezza con campagne pubbliche e referendum consultivi?] Venerdì sera, a banche e mercati chiusi, l’annuncio del governo che da lunedì mattina non abbiamo più gli euro ma le lire, con un ferreo controllo sui movimenti di capitali (intervenendo quindi su banche, gestori, e altri operatori finanziari) e durissimi controlli alle frontiere. E’ per lo meno decisamente improbabile pensare di potere fare una cosa del genere di colpo e in completa segretezza.
I cambi riflettono lo stato delle economie?
Poniamo però che si riesca a procedere segretamente e nel giro di un week-end. Da lunedì mattina abbiamo le lire, libere di fluttuare in un mercato dei cambi non più bloccato. Cosa avviene? Come accennato, naturalmente la lira tenderà a svalutarsi e il marco a rivalutarsi per riflettere la forza delle rispettive economie. Per semplicità continuiamo a considerare Italia e Germania, ma è chiaro che un discorso simile varrebbe anche per altri Paesi dell’area euro che decidessero di uscire o per tutti nel caso di una dissoluzione dell’euro.
Le valute dovrebbero allora fluttuare per andare a riflettere la forza e i fondamentali dell’economia italiana. Ma siamo certi che sia proprio così? Oggi su scala globale il totale di beni e servizi importati ed esportati nel mondo vale circa 20.000 miliardi di dollari l’anno. Il mercato delle valute ha superato i 5.000 miliardi di dollari al giorno. Questo significa che girano più soldi in 4 giorni sui mercati finanziari che in un anno di “economia reale”, o in altri termini che il 99% delle transazioni in valuta non è legato ad alcuna importazione o commercio. Sono soldi che inseguono altri soldi per fare altri soldi.
E’ la forza commerciale dei singoli Paesi, ovvero l’1% delle transazioni, a determinare il valore delle monete, o all’opposto sono molto più rilevanti considerazioni puramente finanziarie che successivamente vanno a influenzare i fondamentali economici? Alla City di Londra si usa un’espressione per indicare il rapporto tra le attività economiche e la finanza che dovrebbe essere al suo servizio: la finanza è oggi the tail that wags the dog, letteralmente la coda che fa scodinzolare il cane.
Se mai c’è stato un qualche “dividendo” dell’euro, questo è identificabile con il maggior peso della moneta unica sui mercati internazionali e quindi con minori possibilità di attacchi speculativi e minori fluttuazioni. In un momento di debolezza e rischio come quello di un passaggio da una valuta all’altra, a quali attacchi speculativi potrebbe essere sottoposta la nuova lira? E con quali conseguenze per la nostra economia? In ogni modo, sarebbero nuovamente possibili fluttuazioni speculative tra diverse valute europee.
Chiariamo. Non è detto che un attacco speculativo debba avvenire e che le conseguenze debbano essere catastrofiche. Semplicemente, escludere tali considerazioni significa “dimenticarsi” della natura del 99% delle transazioni valutarie per guardare unicamente all’1% legato all’export di beni e servizi. Un problema per lo meno troppo spesso sottovalutato.
Se uno degli obiettivi centrali del ritorno a una moneta nazionale è il recuperare la “sovranità monetaria”, è possibile ignorare questo argomento? Persino alcuni detrattori dell’euro riconoscono come in presenza di cambi volatili, le economie aperte hanno per lo meno un’autonomia monetaria estremamente limitata, se non unicamente formale, perché le autorità devono rispondere alle oscillazioni del mercato dei cambi.
Salari reali e salari nominali
Un argomento spesso ingigantito dai “si euro” è quello dell’inflazione. Vengono evocate immagini del tipo “se torniamo alla lira andremo a fare la spesa con le carriole di lire, che non varranno più nulla”. Questo argomento appare a dire poco esagerato. Svalutazione e inflazione non sono in nessun modo la stessa cosa, e diversi studi su analoghe situazioni del passato confermano come un’eventuale svalutazione del 30% non comporti un’inflazione in doppia cifra, soprattutto dopo una primissima fase di assestamento. Ciò detto, una questione legata a una maggiore inflazione comunque esiste e va considerata. Se con l’euro a rimetterci sono i salari nominali, con l’uscita potrebbe esserci un impatto rilevante sui salari reali, ovvero tenuto conto della maggiore inflazione. Come ricorda Claudio Gnesutta, “con la moneta unica il conflitto si concentra esplicitamente sulla riduzione del salario nominale, come modo per rilanciare la competitività (di prezzo). […] Ritornando alla moneta nazionale, il conflitto si presenta come processo inflazionistico per il ridimensionamento del salario reale, in cui si inseriscono gli effetti delle svalutazioni del cambio e le incertezze legate alla speculazione”.
Come per il paragrafo precedente legato a possibili fenomeni speculativi, non è detto che impatti sui salari nominali con l’euro e sui salari reali in caso di uscita siano simili, o che non ci sia comunque nel medio periodo un vantaggio nel tornare alle monete nazionali. Nel proporre di uscire dall’euro appare però per lo meno semplificativo guardare agli attuali salari nominali “dimenticandosi” di analizzare i possibili impatti futuri sui salari reali.
Esportare di più?
Il vantaggio di una svalutazione è abbastanza evidente: le importazioni diventano più care e le esportazioni più semplici, il che permette di migliorare la bilancia dei pagamenti. A fronte di questo vantaggio, bisogna però fare alcune considerazioni. La prima è nell’andare a vedere cosa è avvenuto storicamente a seguito di svalutazioni. Le indicazioni appaiono abbastanza chiare. Le imprese possono sfruttare un vantaggio competitivo rispetto alle omologhe estere (almeno finché altri Paesi non si lanciano in una gara di svalutazioni competitive) e sono spinte a concentrarsi su questa competizione di prezzo, spostandosi verso produzioni a minore contenuto tecnologico.
Come spiega Giuseppe Travaglini, “nei lunghi anni della lira debole, anche quando l’Italia partecipava allo Sme, il sistema produttivo italiano si adagiò sul vantaggio implicito delle svalutazioni competitive senza migliorare la qualità dei prodotti e la produttività del lavoro. Anzi, ad un tasso di cambio prolungatamente debole si associò l’involuzione della struttura produttiva industriale verso le medie e piccole dimensioni, e verso i settori a basso contenuto tecnologico e bassa produttività comunque mantenuti artificiosamente competitivi, nel mercato internazionale, dalle continue svalutazioni. Oggi, nel mutato contesto della globalizzazione appare velleitario difendere questa collocazione commerciale, giacché nei settori a basso valore aggiunto avanzano i paesi di nuova industrializzazione che competono sul costo del lavoro, e impongono ai paesi economicamente avanzati che operano nei medesimi settori la folle “necessità” di tagli salariali e l’erosione delle tutele del lavoro”. [Giuseppe Travaglini, “Un paese in bilico – L’Italia tra crisi del lavoro e vincoli dell’euro”, Ediesse, 2014, p.87]
Riassumendo, se l’obiettivo principale di uscire dall’euro è svalutare per esportare di più, bisognerebbe domandarsi: 1. esportare cosa e con quale contenuto di tecnologia; 2. a quale prezzo e con quali impatti su salari e diritti del lavoro. Sommando queste considerazioni a quelle del paragrafo precedente, gli eventuali vantaggi per lavoratrici e lavoratori appaiono per lo meno sempre meno certi e consistenti.
Export e protezionismo?
Un ulteriore argomento. Se le esportazioni diventerebbero più semplici, nella stessa misura lo sarebbero investimenti e acquisti dall’estero in Italia. Semplificando, con una lira che si svaluta del 30% rispetto all’euro e un marco che si rivaluta del 30%, per una banca italiana il patrimonio si dimezza rispetto un’omologa tedesca (da 100 – 100 a 70 – 130, con un conto estremamente approssimativo). Lo stesso discorso vale per capannoni, fabbriche, terreni e qualsiasi altro cespite. Il risultato è che i Paesi con valute più forti potrebbero acquistare con molta maggiore facilità le imprese italiane, e in particolare quelle più pregiate (per capirsi il fenomeno ricorda quanto avveniva ai tempi della sterlina forte e di alcuni dei luoghi più pregiati della Toscana ribattezzati “Chiantishire”).
L’argomento dei cosiddetti fire sales o saldi è contraddittorio. Secondo alcune analisi al contrario è proprio l’euro a provocare o per lo meno intensificare il fenomeno. Con una propria valuta nazionale, le imprese avrebbero, è vero, un “valore” minore, ma in direzione opposta aumenterebbe la loro redditività, consentendo loro di resistere meglio a eventuali tentativi di acquisizione. Anzi è proprio l’euro, che consentendo una protezione dai rischi di cambio sul medio periodo, incentiverebbe tali investimenti esteri, mentre nello stesso momento “strangola” le imprese che sono quindi più facilmente acquisibili.
Il problema è che entrambi gli argomenti sono probabilmente fondati. L’euro favorisce la circolazione dei capitali senza rischi di cambio e ha degli impatti sulla redditività delle nostre imprese. Nello stesso momento, se si uscisse “nel giro in un week-end” ci sarebbe una rapida diminuzione del valore patrimoniale di imprese e banche, che potrebbe portare a un aumento improvviso di acquisizioni di imprese indebolite da anni di moneta unica troppo forte e dalla conversione dei propri attivi in una debole. La svalutazione è un fenomeno di breve periodo, l’eventuale aumento della redditività e quindi i vantaggi dovrebbero misurarsi dopo anni. Nuovamente, perché “si euro” e “no euro” considerano rispettivamente un solo lato della medaglia?
Per evitare tale rischio sarebbe probabilmente necessario, almeno per un periodo di transizione, imporre dei vincoli su movimenti di capitali e investimenti dall’estero. Se l’obiettivo di una uscita dall’euro è però svalutare per esportare di più, le due cose appaiono decisamente contrastanti. E’ difficile pensare di dire ai Paesi europei (e al resto del mondo) che l’Italia svaluta per esportare ma che contemporaneamente nell’altra direzione vengono messe in campo misure protezionistiche in ingresso su capitali e investimenti. Quale partner commerciale accetterebbe una simile situazione?
Il ragionamento sembra evidenziare l’apparente paradosso accennato nell’introduzione: l’Euro è un problema e ha peggiorato la situazione per gran parte delle imprese italiane, ma non è detto che uscirne possa rappresentare una soluzione e non al contrario peggiorare ulteriormente le cose.
Cambiare strada
Se oggi si può parlare di un’Europa “a guida tedesca”, prima ancora che nella forza economica o nel peso sulle istituzioni europee, è proprio nella visione neo-mercantilista, che fonda sull’export e non sulla domanda interna il proprio successo e impone di conseguenza la “competitività” come valore assoluto. L’idea di uscire dall’euro per svalutare e quindi esportare di più non sta di fatto inseguendo e ricalcando lo stesso approccio e lo stesso problema? L’unico nostro obiettivo deve essere partecipare a una gara al ribasso in materia di diritti e tutele del lavoro, fisco, normative ambientali, svalutazioni monetarie, o in ultima analisi è esattamente questa corsa verso il fondo ad averci trascinato nella situazione attuale?
In quest’ambito la sensazione è che se l’Euro è un disastro, uscirne rischia di essere “un disastro al quadrato”. In un caso stiamo vivendo un declino economico, produttivo e sociale. Nell’altro il rischio concreto è quello di un salto nel buio e di impatti che non ci si può certo limitare a sminuire come “vacanze all’estero un po’ più care e qualche turbolenza in fase di transizione”. Le turbolenze rischiano di essere tsunami, la fase di transizione dell’ordine di diversi anni, l’eventuale uscita da tale fase tutta da dimostrare. E’ difficile capire perché i detrattori dell’euro insistano sull’impatto delle politiche monetarie su quelle economiche e sociali in una direzione ma sminuiscano o trascurino completamente quelle che si avrebbero nella direzione opposta.
E’ in questo senso che la scelta non può essere tra un lungo declino nell’euro o un repentino e profondo peggioramento uscendone, ma che occorre immaginare ulteriori percorsi e ripensare nel loro insieme le politiche finanziarie, fiscali, economiche, sociali e monetarie dell’UE. Ripensarle alla radice per costruire un diverso modello economico. Un modello che si sposti dai consumi agli investimenti, dall’export alla domanda interna, non tagliando ma riqualificando la spesa pubblica per indirizzarla in ambiti con elevati moltiplicatori e a forte contenuto di lavoro, come nella ricerca o nel welfare, promuovendo e accompagnando una riconversione ecologica dell’economia. Questo significa ridiscutere gli assurdi vincoli europei, partendo dal rimuovere gli investimenti da tali vincoli; significa una revisione del mandato e delle funzioni della BCE; significa una politica fiscale espansiva mirata alla creazione di posti di lavoro in diretta opposizione con l’attuale austerità, e via discorrendo. [Vedi le proposte contenute nell’ultimo rapporto “Euromemorandum”]
Anche riguardo l’euro in sé, non è nemmeno detto che le uniche alternative siano tra il rimanere in una moneta unica o l’uscirne per tornare tout court alle valute nazionali. Una proposta è ad esempio quella di trasformare l’euro da moneta unica in una moneta del comune, riprendendo in qualche modo l’idea del Bancor e di una clearing union avanzate da Keynes alla conferenza di Bretton Woods nel 1944. [Per maggiori informazioni sull’euro da moneta unica a moneta comune vedi http://keynesblog.com] Un’altra è quella di affiancare all’euro delle monete locali o nazionali. In qualche modo, l’alternativa migliore tra rimanere nell’euro o uscirne potrebbe essere: tutt’e due.
Più o meno Europa?
Agli argomenti precedentemente esposti ne va aggiunto uno fondamentale, benché oggi appaia enormemente lontano e appannato: l’idea, o meglio l’ideale, di una “unione” europea. Cosa ne sarebbe in caso di fine della moneta unica? Come per i casi precedenti, secondo alcuni “no euro” è proprio la moneta unica a distruggere il sogno europeo, e il ritorno alle monete nazionali è l’unico modo per salvare l’Europa. Una UE considerata irriformabile, con la conseguente necessità di ripartire da monete nazionali per eventualmente riprendere il percorso di integrazione su altre basi. I rigurgiti xenofobi e l’affermarsi di forze di estrema destra ne sarebbero la più evidente testimonianza, mentre chi si ostina a parlare di “più Europa” viene trattato con sufficienza se non con disprezzo.
Per gli argomenti ricordati in precedenza su diritti di lavoratrici e lavoratori, su possibili attacchi speculativi, sul rischio di “guerre valutarie” e di una vera e propria corsa verso il fondo nel nome della competitività e dell’export, nuovamente viene da domandarsi quanto pro e contro siano considerati con oggettività, e soprattutto quanto un’uscita dall’euro permetterebbe di invertire la rotta, cancellare il recente passato con un tratto di penna e ripartire.
Uscire dalla moneta unica renderebbe più semplice o più complesso pensare a scambi commerciali ed economici e a un modello cooperativo in sostituzione dell’attuale competizione interna all’UE? Avvicinerebbe l’idea di una qualche unione fiscale e politica che oggi appare tanto lontana? Un’uscita dall’euro non darebbe ulteriore impulso a una competizione sfrenata tra Paesi? Non darebbe ancora più spazio alle forze nazionaliste, se non a nuove forme di fascismi, che stanno purtroppo prendendo piede in UE tanto in Paesi che hanno la moneta unica quanto in altri che non l’hanno adottata? La proposta di un’uscita dall’euro per rilanciare un percorso di integrazione “solidale” non è forse ancora più utopica e irrealizzabile di quella pur estremamente complessa di una profonda riforma delle istituzioni europee?
Per l’ennesima volta, l’integrazione monetaria in assenza di una reale integrazione politica è stato un errore, ma questo non significa assolutamente, anzi, che il tornare alle monete nazionali non possa essere un errore ben più grave e pericoloso.
Uscire dal guado
Ferme restando queste considerazioni, oggi è oggettivamente difficile sostenere e rilanciare il sogno europeo. Mettere in campo una profonda riforma delle sue istituzioni, un reale processo di integrazione politico e sociale, l’imposizione di regole e controlli per il sistema finanziario e via discorrendo. Procedere lungo queste direzioni, o ipotizzarne e metterne in campo di diverse, è complicato. Sono chiaramente percorsi più complessi rispetto allo slogan “no euro” da sventolare in campagna elettorale. Il problema è che non sembrano praticabili molte altre strade. Per lo meno, sarebbe il caso di promuovere un dibattito “laico” e approfondito su vantaggi e svantaggi di un’uscita.
Questo è l’ultimo punto, ma forse il più importante. Oggi il dibattito sembra polarizzato tra i “si euro” che millantano di carriole di lire per andare a comprare le patate e “no euro” che accusano chiunque abbia dei dubbi o avanzi delle critiche di essere un completo cretino (di solito gli epiteti sono più pesanti) o di essere in malafede perché complice di un qualche complotto globale e “membro del PUDE” (Partito Unico Dell’Euro n.d.r.). Solitamente si è giudicati dei cretini in malafede, così non ci si sbaglia.
Forse il problema non è l’Euro in sé ma molto più in generale la costruzione europea nel suo insieme. L’Euro si inserisce nel paradosso di un’unica banca centrale e di politiche monetarie uguali per tutti in una situazione in cui ogni Paese deve gestire autonomamente il proprio debito pubblico e il bilancio europeo vale meno dell’1% del PIL dei Paesi membri. Un’Europa a metà del guado, dove vige la moneta unica, una banca centrale unica e la libera circolazione dei capitali ma non esiste un’Europa fiscale, sociale e dei diritti. Il problema oggi è come uscire da questo guado. Se sia possibile tornare indietro o se invece non sia necessario, per quanto la strada appaia difficile e piena di ostacoli, continuare a camminare per venirne fuori.
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