Amazzonia, perché l’Europa è complice della deforestazione
Gran parte degli incendi è legata a prodotti agricoli importati in grandi quantità dagli Stati europei. Una responsabilità ammessa anche dal presidente francese Macron
Nello scorso mese di agosto, le immagini della foresta amazzonica in preda a migliaia di incendi hanno fatto il giro del mondo. Il dito è stato puntato, giustamente, contro chi sfrutta i roghi per il proprio tornaconto. Molte delle terre disboscate vengono infatti utilizzate per aumentare le superfici agricole. Si è stigmatizzato inoltre il comportamento di quei decisori politici che lasciano pressoché indisturbati gli speculatori. Ma la realtà è che l’intreccio di interessi dietro agli incendi è molto più complesso. E riguarda molto più da vicino i cittadini europei di quanto si possa immaginare.
The Amazon fires are still burning, while leaders from countries in the Amazon Basin are meeting to discuss deforestation and climate change. pic.twitter.com/Dgsu0m7OuM
— AJ+ (@ajplus) September 7, 2019
Paesi Bassi, Thailandia e Francia i principali importatori di soia brasiliana
Il presidente della Francia Emmanuel Macron lo ha ammesso a chiare lettere alla fine di agosto. «Parigi – ha spiegato – è in parte complice» di ciò che avviene ciclicamente in Amazzonia. Il motivo? La nazione europea importa numerosi prodotti brasiliani. Coltivati in molti casi proprio nei luoghi in cui è stata distrutta la foresta.
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Il caso più emblematico è quello della soia, il cui mercato è destinato in parte all’alimentazione umana, in parte a quella animale. Per entrambe le categorie, è proprio il Brasile la nazione dalla quale la Francia importa le maggiori quantità. Nel 2017, sono state acquistate derrate per 627,3 milioni di dollari (secondo i dati delle Nazioni Unite).
Per il Brasile, inoltre, proprio la Francia rappresenta il terzo Paese al mondo per quantità di esportazioni. Dopo i Paesi Bassi e la Thailandia. Per produrre soltanto i due milioni di tonnellate di varietà di soia importate sul territorio transalpino, il WWF ha calcolato che occorre un’estensione territoriale di almeno 1,82 milioni di ettari.
"Brazilian #soy feeds animals that end up on supermarket shelves and in fast food joints around the world. Global demand for these products is fuelling the fires raging in Brazil’s forests, destroying #Indigenous land." #climatecrisis #savetheamazonhttps://t.co/abk8sNedYZ
— Green Books (@Green_Books) September 6, 2019
Va detto che nella foresta amazzonica, soltanto il 2% delle superfici disboscate dal 2008 ad oggi è stato convertito in piantagioni di soia. Ciò in virtù di una moratoria decisa nel 2006. dal governo brasiliano. Tuttavia, ha sottolineato Clara Jamart, militante di Greenpeace, «esiste un’importante deforestazione legata alla costruzione di strade o infrastrutture di stoccaggio».
L’87% delle proteine vegetali importate nell’Ue finisce negli allevamenti industriali
L’Europa, dunque, è di fatto complice di un sistema incapace di tutelare una risorsa vitale per l’intera umanità. Il cui cuore non è rappresentato soltanto dalle colture di soia. La maggior parte delle terre disboscate in Amazzonia, infatti, è convertita in pascoli per bestiame (in circa il 65% dei casi).
Inoltre, gli stessi animali da macello sono direttamente legati al commercio di proteine vegetali. L’Unione europea importa infatti ogni anno 37 milioni di tonnellate di queste ultime (di cui 33 milioni di soia). E nell’87% dei casi esse sono destinate agli allevamenti industriali. In particolare per pollame e volatili (circa la metà) e per i suini (un quarto). Il che ha generato, di fatto, una dipendenza europea dalle importazioni. Che provengono essenzialmente da Brasile, Stati Uniti e Argentina.
73mila incendi hanno devastato l'Amazzonia nell’ultimo anno. Le cause? Al primo posto gli allevamenti intensivi: stiamo letteralmente bruciando il nostro polmone verde per nutrire gli animali rinchiusi negli allevamenti intensivi. #AmazonFires #AmazonRainforest #ClimateChange pic.twitter.com/eXptX1RuVL
— AnimalEqualityItalia (@AE_Italia) September 12, 2019
Il risultato, secondo l’organizzazione non governativa Amazon Watch, è che le coltivazioni di soia e gli allevamenti sono responsabili dell’80% della deforestazione. In molti casi, tra l’altro, si tratta di prodotti OGM non tracciati (da cui l’opposizione di numerose associazioni ambientaliste e di agricoltori europei a trattati come il Ceta o il Mercosur).
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Secondo un rapporto di Greenpeace, infatti, più del 95% della soia prodotta in Brasile e Argentina è geneticamente modificata. Dall’introduzione delle colture transgeniche, alla metà degli anni Novanta, l’uso di pesticidi per unità di superficie è aumentato di oltre il 170% nelle due nazioni sudamericane.
«L’Europa – sostiene l’associazione – è ben cosciente di tale pericolo, poiché nessuna delle varietà di soia OGM coltivate in America Latina è autorizzata nel Vecchio Continente. E più di un terzo dei prodotti fitosanitari attualmente utilizzati in Brasile è permesso nell’Unione europea».
[ENQUÊTE] Comment réduire la dépendance européenne au soja brésilien et américain
👉 Emmanuel Macron a reconnu lundi 26 août une « part de complicité passée » des Européens, qui importent beaucoup de protéines végétales.https://t.co/bFs8HcpdHy pic.twitter.com/KuzrbcM1qo
— La Croix (@LaCroix) August 29, 2019
Carne e latticini, in Europa consumiamo più del doppio della media globale
Il problema, d’altra parte, è particolarmente antico. La dipendenza europea dalle importazioni di proteine vegetali si può far risalite agli anni Sessanta. Quando un accordo commerciale siglato sotto l’egida del GATT (l’ex WTO) «distribuì» le produzioni mondiali. In America del Nord e Latina quelle di soia e colza. In Europa quelle di grano e cereali.
Il tutto, poi, è stato aggravato dalle abitudini alimentari del Vecchio Continente. In un rapporto pubblicato di recente, intitolato “Hooked on Meet“, Greenpeace ha sottolineato che «nell’Europa occidentale, una persona consuma in media 85 chilogrammi di carne e 260 di latticini all’anno. Il che rappresenta più del doppio della media mondiale. Un consumo eccessivo di proteine animali che pone un grave problema di salute pubblica, oltreché un impatto ambientale e sociale disastroso».