Armi nucleari: un business da 116 miliardi di dollari. Anche per l’Italia
Il calcolo contenuto nel nuovo rapporto Don't Bank on the Bomb: mercato dominato dalle imprese statunitensi. Fra le banche finanziatrici, le italiane Unicredit e Intesa
Il business delle armi nucleari frutta alle compagnie private almeno 116 miliardi di dollari all’anno. Ma la stima rappresenta solo una quota della cifra reale visto che in molti Paesi i programmi di sviluppo di questi armamenti sono circondati tuttora da un alone di mistero.
Lo segnala l’ultimo rapporto della Ong olandese PAX diffuso nell’ambito della celebre iniziativa Don’t Bank on the Bomb. L’indagine prende in esame le aziende del settore registrate in Francia, India, Italia, Olanda, Regno Unito e Stati Uniti. All’elenco si aggiungono per la prima volta le compagnie pubbliche cinesi. Pochi, invece, i dati a disposizione per le aziende di Israele, Pakistan, Russia e, ovviamente, Corea del Nord.
Compagnie USA leader di mercato
Sono quasi trenta le aziende recensite nel comparto della produzione nucleare a scopo bellico. Undici, a margine, le aziende attive nei settori affini. Le corporation americane dominano il mercato: la Huntington Ingalls Industries, in particolare, primeggia nella classifica con 28 miliardi di dollari di contratti all’attivo con lo Stato. A seguire un nome noto dell’industria bellica a stelle e strisce: la Lockheed Martin (oltre 25 miliardi).
E poi tutti gli altri: la China National Nuclear Corporation (CNNC), ad esempio, impegnata in attività di ricerca, sviluppo e produzione nell’ambito dei programmi militari di Pechino. Nel 2018, l’azienda ha completato la fusione con la concorrente China Nuclear Engineering and Construction Group Corporation (CNECC) e, all’inizio di febbraio, ha raccolto 741 milioni di dollari di finanziamenti sul mercato attraverso un’emissione obbligazionaria.
Nella lista dei produttori anche britannica BAE Systems, l’olandese Airbus Group, l’indiana Bharat Dynamics Limited, le francesi Constructions Industrielles de la Méditerranée (CNIM) e Safran e l’italiana Leonardo, da tempo nel mirino degli azionisti attivi.
Missili nucleari sull’asse Italia-Francia
Partecipata in modo rilevante dal Ministero dell’Economia, che ne controlla il 30% circa delle quote azionarie, Leonardo (ex Finmeccanica) ha chiuso il 2017 con 11,5 miliardi di euro di ricavi che hanno generato un profitto netto di 274 milioni.
L’azienda, ricorda il rapporto, è coinvolta nella produzione di missili nucleari per l’arsenale francese in una joint venture con la britannica BAE Systems e l’olandese Airbus. Il contratto fa riferimento alla fornitura dei missili terra-aria a medio raggio ASMPA che montano una testata nucleare progettata dal CEA (Commissariat à l’énergie atomique et aux énergies alternatives). I missili sono operativi dal 2009 e saranno rimpiazzati nel 2035 dai loro successori ASN4G, che saranno prodotti dalla stessa joint venture italo-anglo-olandese.
Banche atomiche
Ad approfittare delle opportunità offerte dalle armi nucleari sono anche le grandi banche e i fondi di investimento. Anche qui svettano gli americani che occupano tutte le posizioni della Top 10. La solita BlackRock è prima in graduatoria con 38,4 miliardi di dollari di investimenti in aziende del settore. A seguire, nell’ordine, Capital Group, Vanguard, State Street, JPMorgan, Bank of America, Citigroup, Evercore, Wells Fargo e Goldman Sachs.
In Italia dominano Unicredit e Intesa. E non è una novità. In base alla propria policy, Intesa ha messo al bando gli investimenti in armi «controverse o bandite dai trattati internazionali» comprese le armi nucleari. Ma l’esclusione, ricorda un report di PAX del marzo 2018 non si applica alle aziende dei Paesi NATO. Dal 2014 in avanti, segnala lo stesso rapporto, la banca ha investito 585 milioni in imprese del comparto, tra cui Boeing (197 milioni) e Honeywell International (240). Gli investimenti di Unicredit sfiorano il miliardo e mezzo e si concentrano principalmente in Lockheed Martin (707 milioni) e Airbus (418).
Il revival delle armi nucleari
Gli appelli per il disarmo si susseguono da sempre.Eppure – ricorda il rapporto – tutti i Paesi dotati di armi nucleari continuano a sviluppare nuovi ordigni. Gli Stati Uniti sono al lavoro su nuovi missili a lunga gittata; della Francia si è già detto in precedenza; l’India cerca di incrementare il proprio arsenale di missili balistici in dotazione ai sottomarini.
Gli sforzi nel comparto nucleare, per altro, sono in linea con le fortune dell’industria bellica nel suo insieme. Nel 2017, ricordava l’Istituto di ricerca internazionale sulla pace di Stoccolma (SIPRI), la spesa globale per le armi ha raggiunto quota 1.739 miliardi di dollari, ovvero il 2,2% del Pil del Pianeta, superando di 13 volte la somma destinata agli aiuti allo sviluppo.
I programmi USA per l’Europa
Le strategie americane interessano anche il Vecchio Continente. In Europa, ricorda ancora il rapporto, ci sono ancora 180 bombe atomiche modello B61 distribuite nelle basi a stelle e strisce di Kleine Brogel (Belgio), Buechel (Germania), Aviano e Ghedi (Italia), Volkel (Olanda) e Incirlik (Turchia). Gli USA sono tuttora al lavoro per rimpiazzare gli ordigni con la loro nuova versione: le bombe modello B61-12. Tra le aziende impegnate nel progetto si segnalano Boeing, Honeywell International e Huntington Ingalls Industries.