Cosa succede quando la finanza governa la produzione musicale
Dai Bowie Bonds ai fondi di private equity: come la musica è diventata un asset finanziario e cosa resta agli artisti
La finanza si è presa anche la musica. Cataloghi, diritti e streaming sono diventati asset da cui ricavare profitti, e pochi grandi colossi dominano ormai il mercato. Con il risultato di una produzione musicale sempre più standardizzata, che lascia poco spazio alla sperimentazione e alle esperienze indipendenti.
Ma se la musica diventa solo un investimento, che ne è del suo valore culturale e collettivo? È la domanda da cui parte questo dossier, che analizza dati, voci e prospettive di chi la musica continua a farla, studiarla e viverla.
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Dai Bowie Bonds ai fondi di private equity: come la musica è diventata un asset finanziario e cosa resta agli artisti - Cosa succede alla musica quando a dominare sono le piattaforme di streaming
Dallo streaming ai playlist algoritmiche: come Spotify e le grandi piattaforme stanno cambiando la musica, il suo valore e chi la produce - La solitudine dell’artista in un mercato musicale ridisegnato dai grandi colossi
Nel panorama musicale contemporaneo, la concentrazione del mercato riduce la libertà degli artisti e impoverisce la diversità culturale
Negli ultimi anni la musica è diventata un prodotto finanziario come un altro. Cataloghi di canzoni, diritti d’autore e royalties vengono scambiati come titoli sul mercato, con rendimenti, garanzie e prospettive di crescita. I protagonisti non sono più produttori, artisti o etichette indipendenti, ma i grandi nomi della finanza come Hipgnosis, Blackstone e Kkr. Ai loro occhi la musica è un asset redditizio, stabile e poco correlato alle turbolenze dei mercati.
I colossi della finanza si comprano la storia della musica
Nell’ottobre 2021 il colosso statunitense Blackstone ha siglato una partnership da un miliardo di dollari con Hipgnosis Song Management, società britannica specializzata nell’acquisto e nella gestione dei cataloghi musicali. L’obiettivo: co-investire nei diritti di autori e interpreti e ampliare la monetizzazione delle opere. Tre anni dopo, nel 2024, ha completato l’acquisizione del suo partner per 1,57 miliardi di dollari, prendendo il controllo diretto di oltre 65mila brani: dai classici di Blondie e Neil Young alle hit di Shakira, Red Hot Chili Peppers, Justin Bieber e Justin Timberlake.
L’operazione ha rafforzato ulteriormente la posizione di Blackstone nel mercato globale dei diritti musicali, dove i flussi derivanti da streaming, pubblicità, sincronizzazioni cinematografiche e concerti garantiscono entrate relativamente stabili e prevedibili. Per i fondi di investimento, la musica è una scommessa sulla longevità dell’ascolto. Un singolo successo può generare ricavi per decenni, mentre un portafoglio di migliaia di brani funziona come un vero e proprio titolo obbligazionario, con flussi di cassa costanti e monitorabili. Secondo la Wipo (World Intellectual Property Organization), organizzazione delle Nazioni Unite per la proprietà intellettuale, tra il 2019 e il 2024 sono stati investiti almeno 20,4 miliardi di dollari nell’acquisizione di diritti musicali.
Le piattaforme che provano a democratizzare gli investimenti nella musica
Inoltre, accanto ai grandi fondi, negli ultimi anni sono nate piattaforme che cercano di “democratizzare” l’accesso agli investimenti nel settore. In altre parole, permettono anche a piccoli investitori di partecipare al commercio dei diritti. Tra le principali figurano Musicow, Royalty Exchange, SongVest e Jukebox.
Un caso emblematico è proprio Musicow, fondata nel 2017 in Corea del Sud e specializzata nel K-pop, il pop coreano. La piattaforma permette agli investitori di acquistare quote di singoli brani e di ricevere pagamenti proporzionali dalle royalties future generate da streaming, trasmissioni radiofoniche e performance dal vivo. Così facendo, trasforma i brani musicali in strumenti di investimento accessibili e commerciabili anche al di fuori dei grandi fondi internazionali.
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La finanza sulle tracce degli artisti e dei loro cataloghi
Nel mercato dei diritti musicali, la partita non si gioca solo tra artisti e investitori, ma anche tra i tre colossi discografici che dominano l’industria globale: Universal Music Group, Sony Music Entertainment e Warner Music Group. Insieme, controllano circa il 75% della produzione musicale mondiale. E negli ultimi anni si sono contesi i cataloghi degli artisti più celebri come fossero materie prime di lusso. Questa corsa alla proprietà dei diritti d’autore ha spalancato le porte alla finanza speculativa. Rendendo quasi inevitabile l’ingresso dei fondi di investimento in un mercato ormai completamente finanziarizzato.
Molti artisti, spinti dall’incertezza del settore o dal desiderio di monetizzare subito decenni di lavoro, hanno ceduto i propri cataloghi per cifre astronomiche. Bob Dylan, ad esempio, ha venduto nel 2020 il suo intero catalogo editoriale a Universal Music Publishing per una cifra stimata tra 300 e 400 milioni di dollari, per poi cedere nel 2021 anche i diritti di registrazione a Sony Music.
Dylan, Springsteen, Young: quando gli artisti cedono ai grandi capitali
Bruce Springsteen ha seguito un percorso simile: nel dicembre 2021 ha firmato con Sony un accordo da circa 500 milioni di dollari, che comprendeva sia i diritti editoriali sia quelli sui master. Prima della vendita, si era vociferato di una vera e propria battaglia di offerte tra Universal e Sony per assicurarsi il suo catalogo. Alla fine Sony Music Group ha prevalso, ma non da sola: per finanziare l’acquisizione, si è infatti appoggiata alla società d’investimenti americana Eldridge Industries, segno di quanto la finanza privata sia ormai intrecciata con l’industria musicale.
Anche Neil Young, paladino di un’idea indipendente e politica della musica, ha ceduto nel 2021 il 50% del suo catalogo a Hipgnosis Songs Fund per circa 150 milioni di dollari. Tutte operazioni che hanno garantito liquidità immediata agli artisti. Ma al prezzo di perdere il controllo sulle proprie opere, e, con esso, la possibilità di decidere come e dove la loro musica verrà utilizzata.
Come funzionano i diritti musicali
Dietro queste transazioni si nasconde una distinzione tecnica cruciale: quella tra diritti di pubblicazione (publishing), che riguardano la composizione (testo e musica), e diritti di registrazione (master), che si riferiscono all’incisione vera e propria. Chi detiene i diritti di pubblicazione può autorizzare cover, sincronizzazioni pubblicitarie o cinematografiche. Chi controlla i master decide la distribuzione del brano originale, anche sulle piattaforme digitali. Quando un artista vende entrambi, perde ogni potere di veto: i suoi brani possono comparire in uno spot o in un film, indipendentemente dal suo consenso.
Tutte e tre le major musicali hanno quindi investito miliardi nell’acquisto di diritti musicali negli ultimi anni. La testata specializzata Music Business Worldwide stima che circa 5 miliardi di dollari siano stati spesi per l’acquisizione di cataloghi solo nel 2021 e che la cifra da allora sia cresciuta ancora.
Così la musica diventa un asset finanziario e gli artisti restano sullo sfondo
In questo contesto, i fondi di private equity non sono un elemento esterno, ma il risultato naturale di un sistema già dominato dalla finanza. La corsa ai cataloghi musicali più redditizi, oggi guidata da fondi e conglomerati, dura ormai da decenni. Nel 2009 KKR e Bertelsmann AG hanno fondato la joint venture BMG Rights Management. Tra il 2009 e il 2019 la società ha investito circa 1 miliardo di euro, ampliando anche il settore della musica di produzione per film, TV e pubblicità.
La musica è dunque diventata un asset negoziabile, un portafoglio da ottimizzare, un flusso di royalties da proiettare nei bilanci. E nel gioco del controllo, a restare sullo sfondo sono proprio gli artisti, i creatori di quel valore. Eppure, l’idea di trasformare la musica in un prodotto finanziario è arrivata proprio da uno di loro.
David Bowie, il primo a portare la musica nel mondo della finanza
Fu infatti David Bowie, nel 1997, a lanciare sulla piazza di Wall Street i celebri “Bowie Bonds”, obbligazioni garantite dai diritti d’autore delle sue opere. Il cantante britannico raccolse così 55 milioni di dollari cedendo per dieci anni i proventi derivanti dai diritti di 25 album pubblicati prima del 1990, tra cui “Let’s Dance” e “Hunky Dory”. In cambio, gli investitori ricevevano un rendimento annuo del 7,9%, mentre Bowie otteneva immediatamente liquidità senza rinunciare alla proprietà dei suoi brani. Di fatto, l’artista aveva trovato un modo per anticipare gli incassi futuri del proprio catalogo, trasformandoli in uno strumento di investimento negoziabile sul mercato.
Quell’esperimento pionieristico segnò un precedente importante, seguito da altri artisti come Rod Stewart, James Brown e gli Iron Maiden. E mostrò come la musica potesse diventare un asset capace di garantire rendimenti costanti e attrarre investitori. Con l’avvento della pirateria digitale e il crollo delle vendite di CD, però, nel 2004 Moody’s declassò i Bowie Bonds da A3 a Baa3, segnalando l’aumento del rischio nel settore. L’era dello streaming e di Spotify ha poi ribaltato lo scenario.I flussi digitali hanno reso le entrate più prevedibili, restituendo alla musica l’immagine di bene rifugio. Il successo di fondi come Hipgnosis Songs Fund e Primary Wave ha infine consolidato la fiducia della finanza, trasformando definitivamente le canzoni in strumenti di investimento.
Senza proprietà sui diritti non c’è più arte
Ma se negli anni Novanta Bowie manteneva ancora il controllo sulle proprie opere, negli anni successivi il modello si è progressivamente spostato verso fondi e società di investimento, che acquistano interi cataloghi per generare rendimenti. Oggi KKR, attraverso la sua controllata Chord Music Partners, ha acquistato da Kobalt un imponente catalogo di 65mila brani, che include successi di The Weeknd, Stevie Nicks e Childish Gambino. I diritti di questi artisti vengono trasformati in titoli obbligazionari. Una versione aggiornata e su scala industriale dei vecchi “Bowie Bonds” ma senza che l’artista abbia ne condivida il controllo.
La musica, da forma d’arte, si è trasformata in un bene su cui scommettere, simile a un titolo o a un’azione. Questo aspetto, meno discusso, ha implicazioni di natura politica e simbolica. Quando un musicista cede i propri diritti, la possibilità di determinare l’uso della propria opera viene trasferita a fondi o case discografiche. Ne deriva che decisioni che riguardano il contesto di diffusione dei brani, comprese eventuali prese di posizione pubbliche, non dipendono più dall’artista.
È quanto è emerso di recente con Spotify. Diversi artisti hanno chiesto di rimuovere la loro musica dopo che il Ceo Daniel Ek ha investito in tecnologie militari basate sull’intelligenza artificiale. In alcuni casi, però, la rimozione non è stata possibile perché i diritti erano in mano a fondi o case discografiche. In questo senso, la finanziarizzazione della musica non solo trasforma le opere in asset negoziabili, ma riduce anche la libertà politica e simbolica degli artisti, che perdono la voce proprio attraverso ciò che li ha resi ascoltati.
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