Quali banche sono entrate nel metaverso. E, soprattutto, perché
Anche le grandi banche sono entrate nel metaverso, benché il suo sviluppo sia ancora agli albori: è solo marketing o c'è anche sostanza?
Ritagliarsi un’oretta di tempo libero da qualsiasi altro impegno, indossare i visori della realtà virtuale, immergersi con il proprio avatar all’interno di un mondo virtuale e… incontrare il direttore di filiale della propria banca. Forse non è proprio questa la prima cosa che ci viene in mente, se pensiamo alle tanto decantate opportunità offerte dal metaverso. Eppure, nell’arco di qualche mese già diverse banche sono entrate nel metaverso. Cerchiamo di capire il perché.
Quali banche sono entrate nel metaverso
Il 67% dei dirigenti delle grandi banche prevede che il metaverso abbia un impatto positivo sulla propria organizzazione. Il 38% è convinto del fatto che sarà un punto di svolta o di trasformazione. È quanto emerge dalla ricerca Technology Vision della società di consulenza Accenture.
Detto fatto, l’americana JPMorgan ha battuto sul tempo le concorrenti facendo il suo ingresso trionfale su Decentraland, una delle piattaforme più popolari. La lounge dedicata a Onyx (suite di servizi basati su blockchain) ha sede a Metaiuku, l’equivalente virtuale di Harajuku, il quartiere dello shopping di Tokyo. Al primo piano il visitatore viene accolto da una tigre che si aggira placida, sovrastata dal ritratto del Ceo Jamie Dimon; al secondo piano invece lo attendono gli esperti di criptovalute.
La britannica HSBC ha preferito Sandbox, dove ha intenzione di conquistarsi i clienti a suon di contenuti ludici e immersivi. Tra le pioniere c’è anche la sudcoreana Kookmin Bank, che ha messo a punto una banca virtuale in cui il cliente può effettuare operazioni e incontrare il suo consulente; ha fatto qualcosa di simile la francese BNP Paribas con la sua app per la realtà virtuale.
Bank of America invece per ora sta approfittando di tali tecnologie soprattutto per i corsi di formazione dei dipendenti. Tra le banche che sono entrate nel metaverso, l’unica (per ora) intenzionata ad abilitare i pagamenti digitali all’interno della piattaforma è la britannica Sokin. Per questo scopo sta costruendo un ambiente digitale proprietario destinato a ospitare i brand di svariati settori, dallo sport alla moda.
Ma cosa ci fanno le banche nel metaverso?
Ciascuno di questi progetti non si costruisce certo dall’oggi al domani: servono cospicui investimenti di tempo e risorse, economiche e umane. Tutta questa fatica per presidiare un territorio (digitale) che si trova in uno stadio embrionale. E che, proprio in virtù di questa sua immaturità, porta con sé parecchi rischi legali e reputazionali. Che fare, per esempio, di fronte all’escalation di abusi che sfuggono alle leggi ordinarie? Come evitare che le transazioni in criptovalute siano stratagemmi per riciclare denaro? Come gestire i dati personali degli utenti, molto più ricchi rispetto a quelli generati mediante le consuete home banking? Tutti problemi che Accenture mette nero su bianco.
Se è così, perché mai le banche sono entrate nel metaverso? Ne vale davvero la pena? Forse è presto per dare una risposta, ma è lecito avanzare alcune ipotesi. Innanzitutto, è verosimile che tali società preferiscano accaparrarsi ora il proprio spazio nelle piattaforme, anche se sono ancora molto acerbe, piuttosto che dover recuperare il ritardo quando saranno giunte a un pieno sviluppo.
Detto questo, i vantaggi riguardano soprattutto il marketing. Entrare nel metaverso, e farlo quando è popolato dalla nicchia dei primi arrivati (early adopters), significa svecchiare il proprio brand, intercettare nuovi target di consumatori, sperimentare canali inediti di customer service.
Potrebbe essere poi il cavallo di Troia per farsi spazio nel segmento delle criptovalute e degli NFT, proprio mentre inizia a essere regolamentato e perde quindi (almeno in parte) il proprio carattere sovversivo. Insomma, le possibilità che si intravedono all’orizzonte sono parecchie. Ma, per il momento, c’è più strategia che sostanza.