Costringiamo le banche che salviamo a salvare il clima

Dalla Svizzera, dopo il crollo di Credit Suisse, la proposta di condizionare i salvataggi bancari all'imposizione di politiche per il clima

La crisi climatica è alimentata in gran parte con capitali provenienti dalle banche © bestdesigns/iStockPhoto

Silicon Valley Bank non ne faceva parte, ma Credit Suisse certamente sì. Per non parlare di UBS, che l’ha salvata. E ancor di più di Deutsche Bank, che è la più grande banca della più grande economia europea. Parliamo degli istituti di credito considerati too big to fail, ovvero “troppo grandi per fallire”. Quelli ai quali, in linea teorica, sono applicate regole che dovrebbero scongiurarne il crollo e, soprattutto, il successivo effetto-domino in grado di trascinare nel baratro l’intero sistema finanziario mondiale (leggasi alla voce “crisi del 2008”).

L’uso di capitali pubblici deve comportare regole di management diverse

Qualcosa però, in quelle regole, evidentemente non funziona, se Credit Suisse ha potuto ritrovarsi nel giro di pochi giorni sull’orlo del precipizio. E dire che di avvisaglie ce n’erano state, e molte, di una gestione per lo meno discutibile del colosso bancario. Ciò nonostante, come noto, l’istituto svizzero ha prima ricevuto un’iniezione di liquidità d’emergenza da 50 miliardi di euro da parte della Banca centrale elvetica. Poi è stato rilevato dalla più grande UBS, su richiesta diretta dal governo, che sul piatto ha messo anche alcuni miliardi di euro come garanzie

Fin qui la cronaca. Proviamo però a trovare qualcosa di (potenzialmente) positivo in tutta questa vicenda. Un’idea interessante è stata lanciata da Morgane Nusbaumer, ricercatrice e attivista svizzera, su Heidi.news: «Imponiamo strategie climatiche alle banche che salviamo». Di una semplicità disarmante: se le banche utilizzano capitali pubblici per non crollare, non possono poi godere della stessa totale indipendenza che è loro propria quando il denaro con il quale “fanno business” (ovvero prestano denaro a cittadini e imprese, nella migliore delle ipotesi; speculano senza limiti né scrupoli su tutti i mercati, nella peggiore) con fondi privati.

Il sostegno di Credit Suisse e UBS al settore delle fossili

Esempi pratici: tra i soggetti finanziati nel tempo da Credit Suisse figura TotalEnergies. Capofila del controverso mega-oleodotto da 1.500 chilometri che dovrebbe attraversare parchi nazionali in Uganda e Tanzania, l’Eacop. Per trasportare 10 milioni di tonnellate di petrolio all’anno. E per la cui costruzione sarebbero costrette a sloggiare 100mila persone. Ancora, il colosso del carbone Glencore ha ricevuto quasi un miliardo di dollari dalle banche elvetiche, tra il 2016 e il 2022, tra prestiti e sottoscrizioni. E in Svizzera, continua Nusbaumer, le due banche che concedono più capitali alla fonte fossile in assoluto più dannosa per il clima, sono proprio Credit Suisse e UBS. 

Quest’ultima, membro fondatore dell’ormai pressoché macchiettistica Glasgow Financial Alliance for Net Zero (Gfanz), ha investito quasi 2 miliardi di dollari in imprese che si occupano di ricercare nuovi giacimenti di carbone, petrolio e gas (mentre non dovremmo più sfruttare neppure quelli esistenti). E questo solo tra i mesi di aprile del 2021 e di settembre del 2022. Nello stesso periodo, la banca ha detenuto titoli per un totale di 11,3 miliardi di dollari in 138 di tali società.

Oltre 28 miliardi a carbone, petrolio e gas dal 2016 ad oggi

Più in generale, secondo le informazioni pubblicate dall’agenzia di stampa Bloomberg, a partire dall’Accordo di Parigi, ovvero dalla fine del 2015, Credit Suisse ha concesso prestiti alle compagnie del settore delle fossili per 21,7 miliardi di dollari; UBS per 6,4 miliardi. Per un totale di oltre 28 miliardi.

Per la transizione climatica, si sa, mancano soldi. Le promesse, anche dal mondo della finanza, sono spesso disattese. E allora quale migliore occasione per imporre condizioni alle banche