Dietrofront sulla sicurezza nella patria del tessile low cost
Bangladesh, l'Alta Corte impone di chiudere l'ufficio che supervisiona la sicurezza delle fabbriche tessili. Un colpo ai progressi ottenuti dopo la tragedia del Rana Plaza
In Bangladesh una sentenza che farà discutere. Un tribunale dell’Alta Corte ha infatti stabilito che deve chiudere i battenti l’ufficio di collegamento dell’Accordo sugli incendi e la sicurezza degli edifici (Accord on Fire and Building Safety) di Dacca, la capitale.
Una sentenza emessa a seguito di un’istanza presentata da Smart Jeans, un fornitore locale di capi di abbigliamento, da eseguire – se confermata – entro il 6 dicembre prossimo.
E se alla Corte Suprema non verrà ribaltato il verdetto, si interromperà l’attività di uno dei terminali sul campo dell’importantissimo accordo nato nel 2013 sulla scia della tragedia del crollo di Rana Plaza, e dei suoi 1134 morti, rimasti intrappolati nell’edificio fatiscente stipato di laboratori tessili.
A quell’accordo partecipano più di 200 aziende (tra cui H&M, Inditex, Adidas, Desigual), cioè i giganti della moda internazionale e del fast fashion. E grazie ad esso si stanno conducendo ispezioni e vengono coordinati gli interventi di messa in sicurezza nelle fabbriche tessili del Paese. Un comparto che vale oltre il 60% del Pil del Bangladesh.
Reazioni contrastanti alla sentenza in Bangladesh
La sentenza dell’Alta Corte, del resto, non sembra far felice davvero nessuno, a cominciare da quei marchi europei della moda che, obbligati dalle pressioni dell’opinione pubblica a sottoscrivere l’accordo, ora potrebbero avere difficoltà a rinunciarvi.
Il direttore esecutivo dell’Accordo Rob Wayss – a quanto riporta l’agenzia internazionale Reuters – ha infatti dichiarato che la chiusura degli uffici di Dacca costringerebbe l’organizzazione a traslocare di Amsterdam, poiché il contratto legalmente vincolante firmato tra i membri dell’accordo si estende fino al 2021. Ma tale spostamento aumenterebbe i costi per tutti, danneggiando anche i fornitori.
In un Paese dove il governo ha istituito un organismo di regolamentazione nazionale per rilevare l’avanzamento dei lavori dell’accordo, e dove lo stesso governo viene dato per irremovibile riguardo la fine del mandato alla piattaforma internazionale, non tutti concordano sulla sentenza. Anzi, si registrano pareri di segno completamente opposto tra alcuni soggetti para-istituzionali, rappresentanti delle controparti interessate al lavoro nell’industria tessile.
Stando alle notizie diffuse dal portale Ucanews.com, c’è ad esempio un’organizzazione sindacale come Bangladesh Garment and Industrial Workers Federation secondo cui «Il governo del Bangladesh e gli organismi che presiedono al commercio dell’abbigliamento non sono abbastanza competenti per continuare le riforme sulla sicurezza introdotte dall’accordo».
Di parere decisamente diverso è invece Atiqul Karim Khan, direttore della Bangladesh Garment Manufacturers and Exporters Association – BGMEA. Per Khan, che parla a nome dei produttori di confezioni tessili, governo e BGMEA avrebbero «migliorato la capacità di garantire sicurezza nelle fabbriche, e la partenza dell’accordo non avrà molto impatto sul settore». Come dire, lasciateci lavorare, non abbiamo più bisogno di voi.
Attivisti per i diritti umani e dei lavoratori sul piede di guerra
La notizia della sentenza è, prevedibilmente, deflagrata come una bomba anche in Occidente. Giunta durante la settimana di azioni che la Campagna Abiti Puliti ha organizzato per chiedere – per l’ennesima volta – al colosso svedese del fast fashion H&M di rispettare gli impegni sul salario dignitoso. Impegni messi nero su bianco dall’azienda stessa e poi dimenticati e nascosti dalla propria comunicazione ufficiale.
Non solo. La notizia è arrivata in Italia nelle stesse ore in cui a Roma si teneva una conferenza stampa con alcuni protagonisti della battaglia per i risarcimenti relativi al rogo della Ali Enterprises di Karachi, in Pakistan. Un’altra azienda fornitrice dei grandi marchi della moda internazionale (produceva per il distributore tedesco KiK), che nel 2012 concluse la propria attività con un terribile incendio.
Nell’episodio morirono più di 250 persone (tra cui bambini): sulle cause sono emersi punti oscuri e inaccettabili che hanno lambito anche il nostro Paese. Dal momento che fu RINA Italy, impresa di certificazione con sede a Genova, ad attestare il rispetto da parte dell’azienda degli standard di sicurezza SA8000. Senza però aver mai visitato i laboratori di Karachi.
RINA Italy certificò la fabbrica bruciata con 250 operai. Senza averci mai messo piede
Lucchetti: milioni di lavoratori a rischio
Non si è fatta attendere neppure l’opinione della Campagna Abiti Puliti. Durissima la coordinatrice Deborah Lucchetti, preoccupata per il destino di un lavoro lungo 5 anni in difesa dei diritti umani e della sicurezza sul lavoro nella filiera della moda globale.
«Se l’ufficio operativo dell’Accordo sulla sicurezza degli edifici e la prevenzione degli incendi siglato all’indomani della tragedia del Rana Plaza, sarà chiuso prematuramente in Bangladesh, milioni di lavoratori saranno in pericolo e il lavoro condotto in questi 5 anni rischia di essere vanificato.
Le conseguenze per la salute e la sicurezza dei lavoratori saranno gravi e profonde, visto che il governo del Bangladesh non ha ancora dimostrato di avere le competenze tecniche e la volontà politica per assicurare in autonomia ispezioni indipendenti e meccanismi rimediali efficaci in caso di infortuni sul lavoro.
È necessario che l’accordo rimanga pienamente operativo in Bangladesh e prosegua il lavoro di monitoraggio e messa in sicurezza di tutte le fabbriche tessili avviato dopo il disastro del Rana Plaza, finché il governo del Bangladesh non sarà pronto ad assumere in maniera efficace tutte le funzioni ispettive, come previsto dall’Accordo di transizione firmato nel 2018».