Bangladesh, H&M preme per le ispezioni. Ma intanto guarda all’Etiopia
H&M chiede di aumentare i controlli sulle condizioni di lavoro nell’industria tessile. Ma fa piani per spostare le produzioni dove i salari sono ...
In Bangladesh bisogna accelerare i tempi delle ispezioni sulle condizioni di lavoro nell’industria tessile. A lanciare l’appello, riportato dall’agenzia Reuters, è il colosso globale dell’abbigliamento low-cost H&M. Che però, dall’altro lato, fa discutere coi suoi progetti di delocalizzazione.
Un piano nazionale per le ispezioni
Risale a circa un anno fa il disastro del Rana Plaza, che ha portato alla morte di oltre 1.100 persone e ha puntato drammaticamente i riflettori sulle condizioni disumane di molte fabbriche tessili della zona, dove lavorano i fornitori dei grandi brand occidentali. Oltre 150 aziende avevano promesso di completare le ispezioni sulle fabbriche entro la fine di agosto, ma i tempi si sono allungati ben più del previsto. Proprio per questo Helena Helmersson, responsabile della sostenibilità per il colosso svedese, ha lanciato un appello alle autorità del Bangladesh per mettere in campo un piano nazionale di ispezioni sull’intero settore tessile. Verifiche che quindi dovrebbero essere coordinate a livello centrale, senza dipendere dalla discrezionalità del singolo brand. Ma, fa notare l’agenzia britannica, in Bangladesh ci sono meno di 200 ispettori qualificati. E le fonti ufficiali hanno dichiarato che per portare a termine i controlli ci vorranno almeno cinque anni.
Corsa a trovare dove il salario è più basso
H&M non era direttamente coinvolta nel disastro del Rana Plaza ma acquista l’80% dei propri capi dai fornitori asiatici. Ma è proprio il basso costo della produzione ad aver aiutato la società svedese a farsi strada in tutto il mondo, con oltre 3mila punti vendita in 53 nazioni. SI stanno facendo sempre più frequenti le sue prese di posizione sul tema della sostenibilità, ma dall’altro lato non mancano le critiche. Ha fatto infatti molto discutere il piano di spostare parte della produzione in Etiopia, dove il costo del lavoro è ancora più basso di quello (già minimo) dell’Asia.