Bankitalia: così le ‘ndrine colonizzano le imprese del Centro-Nord
Banca d’Italia: 9.200 aziende infiltrate nel 2016, ricavi di 42 miliardi di euro e 8mila soci collegati alla ‘ndrangheta. Tra gli effetti macroeconomici, il crollo dell’occupazione
Quasi 8mila soci, azionisti o amministratori di 9.200 aziende del Centro-Nord sono legati da vincoli familiari a clan ‘ndranghetisti e sono probabilmente affiliati alla ‘ndrangheta: si tratta dello 0,2% del totale degli imprenditori e dello 0,7% del totale delle imprese di questa intera area del Paese. Queste aziende – data la loro dimensione maggiore della media – nel 2016 hanno prodotto quasi il 2% dei ricavi totali delle società del Centro-Nord: si tratta di circa 42 miliardi di euro.
Infiltrazione, riciclaggio, intimidazioni, usura
La ‘ndrangheta tende a infiltrarsi soprattutto in imprese in difficoltà economiche e finanziarie e preferisce settori che operano in stretta relazione con il settore pubblico e che sono più inclini alle attività di riciclaggio. L’infiltrazione si verifica principalmente attraverso l’acquisizione di quote o azioni della società e solo in misura minore tramite l’ingresso di un membro del clan tra gli amministratori.
L’ingresso nelle aziende del crimine organizzato di origine calabrese ne modifica le performance ufficiali di bilancio: i ricavi aumentano significativamente, in alcuni casi per una sovrafatturazione che copre riciclaggio di denaro, in altri casi per guadagni reali ottenuto esercitando una posizione dominante sul mercato creata dall’intimidazione e dalla violenza nei confronti dei concorrenti, spazzati via dall’organizzazione criminale, e/o anche grazie alla grande disponibilità di capitali sporchi a basso costo.
Fallimenti aumentano, occupazione crolla
Questo però porta anche a un aumento del tasso di chiusura e fallimenti delle aziende infiltrate, che è superiore alla media dei rispettivi settori, e a effetti negativi di lungo termine sulla crescita economica e sulla disponibilità di posti di lavoro dei territori “colonizzati” dalle ‘ndrine.
I Comuni più colpiti dalla presenza della criminalità organizzata calabrese, nell’arco dei quarant’anni tra il 1971 e il 2011, hanno segnato un dato occupazionale inferiore del 28% circa a quello dei Comuni “immuni”.
Sono questi i principali risultati che emergono dalla ricerca “Gli effetti reali della ‘ndrangheta: le evidenze a livello aziendale” realizzata da Litterio Mirenda, Sauro Mocetti e Lucia Rizzica, ricercatori della Banca d’Italia, pubblicata a ottobre nella collana dei “Temi di discussione” di Palazzo Koch.
Nord-Ovest l’area più a rischio
I tre studiosi hanno combinato le informazioni dai registri investigativi con i dati sulla governance e sui bilanci delle imprese. Mirenda, Mocetti e Rizzica hanno costruito un indicatore statistico di infiltrazione che sfrutta diverse fonti di dati e alcune ipotesi. In particolare, i tre analisti hanno combinato dati sulle imprese con informazioni tratte da prove giudiziarie e investigative sui clan di ‘ndrangheta attivi nel Centro-Nord e hanno estratto tutti gli azionisti, soci e amministratori d’impresa che condividono il cognome e l’area di origine di clan di ‘ndrangheta. Questo lavoro ha consentito di creare un indicatore probabilistico di infiltrazione delle ‘ndrine nelle aziende del Centro-Nord.
Ne emerge che la ‘ndrangheta è più diffusa nel Nord-Ovest e opera principalmente in settori che dipendono maggiormente dalla domanda del settore pubblico e in quelli più inclini al riciclaggio di denaro.
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Nel primo caso, il principale fattore dell’infiltrazione è la massimizzazione del profitto e la sua estrazione dall’azienda, mentre nel secondo caso le infiltrazioni mirano a nascondere i proventi delle attività illegali. Lo studio dimostra che le infiltrazioni di solito si verificano in imprese meno produttive e meno redditizie e che le attività infiltrate sono caratterizzate da un grado di vulnerabilità finanziaria crescente negli anni che precedono l’infiltrazione. L’ingresso della criminalità organizzata nelle aziende ne aumenta significativamente le entrate e ne aumenta il numero di dipendenti, ma non il livello degli investimenti.
La presenza mafiosa deprime il Pil: fino a -16% in 30 anni.
A livello macroeconomico, i risultati della ricerca mostrano che la penetrazione della ‘ndrangheta produce un significativo effetto negativo sulla crescita economica locale a lungo termine e che questo effetto è maggiore per i settori che hanno maggiori probabilità di essere colpiti dalla criminalità organizzata allo scopo di realizzare profitti, piuttosto che per quelli in cui la ‘ndrangheta opera per riciclare denaro. Altre stime indicano che la presenza della mafia può ridurre sostanzialmente la crescita del Pil pro capite, con una perdita che potrebbe arrivare fino al 16% circa in trent’anni.
I canali attraverso i quali la criminalità organizzata può ridurre la ricchezza e il benessere di un Paese sono molteplici. Ci sono i costi diretti, rappresentati dalle risorse pubbliche e private impiegate nella lotta contro le organizzazioni criminali, come pure dalle risorse che il crimine organizzato sottrae all’economia (ad esempio attraverso furti, rapine o estorsioni).
Ci sono poi i costi indiretti, che includono tutte le distorsioni nell’economia generate dalla presenza e dall’azione delle organizzazioni criminali nell’area e sono molto maggiori dei costi diretti. Questi comprendono i legami corruttivi tra gruppi criminali e governi locali, che incidono sulla spesa pubblica reindirizzandola verso obiettivi particolaristici e criminali, le distorsioni del mercato create dal potere intimidatorio delle organizzazioni criminali, i vantaggi competitivi delle imprese infiltrate generati dalla disponibilità di capitale illegale e/o dalla minaccia e dall’uso della forza.
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La ‘ndrangheta, nata a fine Ottocento in Calabria, secondo Transcrime nel 2010 ha realizzato ricavi da attività illecite per 3,5 miliardi di euro, quasi il doppio di quelli di Cosa nostra e, secondo Europol, è attualmente tra i gruppi di criminalità organizzata più ricchi e potenti a livello globale.
Si ritiene che i mafiosi calabresi controllino la maggior parte del traffico di droga tra le Americhe e l’Europa e si stima che la maggior parte delle entrate dell’organizzazione siano prodotte al di fuori della Calabria.
Le stime indicano che solo il 23% delle entrate delle ‘ndrine sarebbe ormai realizzato in Calabria, a fronte di oltre il 60% per Cosa nostra in Sicilia e per la camorra in Campania.
Il numero di clan di ‘ndrangheta operanti nel Centro e nel Nord, secondo la Commissione parlamentare antimafia, è di circa 250 famiglie, significativamente maggiore di quello dei clan di cosa nostra o della camorra attivi nelle stesse aree.