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Bassa finanza #7: di multe e bruscolini

Prima il tasso interbancario LIBOR – su cui poggiano “trilioni” di mutui a tasso variabile – e ora i tassi di cambio delle valute, su cui si ...

Prima il tasso interbancario LIBOR – su cui poggiano “trilioni” di mutui a tasso variabile – e ora i tassi di cambio delle valute, su cui si basano milioni di transazioni, comprese quelle che effettuiamo con le nostre carte di credito quando siamo all’estero. Alcune tra le maggiori banche internazionali si sono messe d’accordo per manipolarli a loro favore, sottraendoli alle dinamiche di domanda e offerta dei mercati. E dopo le supermulte per lo scandalo LIBOR del dicembre 2013 sono arrivate, a inizio novembre, le sanzioni record per chi ha falsato i cambi: 4,3 miliardi di dollari in tutto (3,4 miliardi di euro), comminati dalla FCA inglese (Financial Conduct Authority),  dalla US Commodity Futures Trading Commission (CFTC), dalla svizzera Finma e dall’OCC (Office of the Comptroller of the Currency) statunitense. Dovranno pagare i soliti noti: RBS, JPMorgan, Citigroup (che ha il conto più salato: 817 milioni di euro), HSBC,
UBS e Bank of America.
Ma fanno veramente male queste multe o sono solo bruscolini per banche come Citigroup, che nel 2013 ha fatturato 61,2 miliardi di euro? “Le multe – ha spiegato al Financial Times l’economista della Stanford University Anat Admati – sono viste come un costo associato alle attività di business. Non vanno al cuore del problema e non sono efficaci nel far cambiare i comportamenti perché rimangono in atto forti incentivi a perseguire le stesse pratiche”. Gran parte delle sanzioni finiscono poi nelle casse del tesoro (americano o inglese) e solo una piccola percentuale (5%) viene riconosciuta alle vittime delle frodi. Al danno, spesso, si unisce la beffa: in alcuni casi le supermulte sono in parte fiscalmente deducibili. E’ sicuramente un fatto positivo che si stiano muovendo, in modo coordinato, le autorità di vigilanza dei principali paesi. Ma non è il caso di esultare: l’operazione “grandi multe” per ora sembra solo un intervento di facciata.


Lo ripetiamo spesso in #bassafinanza: se una banca non ci dice dove mette i soldi che le affidiamo, poi non ci si deve stupire se si scopre che qualche miliardo di euro è stato destinato al finanziamento di armi non convenzionali. Secondo una ricerca dell’organizzazione pacifista olandese Pax, dal 2011 ad oggi le maggiori banche internazionali hanno investito 27 miliardi di dollari nelle bombe a grappolo. Tra i maggiori investitori i fondi americani BlackRock e Carlyle, ma anche Deutsche Bank e Crédit Mutuel. Le società italiane Generali, Unicredit, Intesa Sanpaolo sono uscite dalla lista della vergogna (Hall of Shame) ma non sono ancora riuscite ad entrare nella “Hall of Fame”: in Italia ce l’ha fatta solo Banca Etica.
Scaricare il rapporto.
Un rapporto analogo che si concentra sulle banche italiane è stato effettuato da Ires Toscana. Risale al 2013. Scarica il rapporto di Ires Toscana.


Non solo il LIBOR e le valute. Le banche USA avrebbero manipolato anche i prezzi di carbone, uranio, alluminio, rame. E la Federal Reserve (la Fed, banca centrale degli Stati Uniti) sarebbe rimasta a guardare. O peggio: avrebbe guardato senza capire cosa stava succedendo. La Fed non sarebbe riuscita a calcolare quanto davvero le banche fossero esposte a rischi o avessero accumulato in termini di stock fisici di commodities. Lo dice un rapporto del Senato americano presentato il 19 novembre, frutto di un’inchiesta durata due anni. “Tutto legale”, reclamano le banche. La palla passa ora al Dipartimento di Giustizia.


Aspettiamo ad esultare per le sanzioni record che stanno cadendo a pioggia sui soliti noti della finanza mondiale per la manipolazione di cambi e indici. Come scrive il Washington Post, molte di queste sanzioni si possono portare in detrazione fino al 35% della somma totale. Ne parla in modo diffuso anche Matteo Cavallito sul numero di Valori di Settembre, che vi invitiamo a rileggere.
Eccovi tutte le coordinate:
Matteo Cavallito, Banche, il prezzo della “colpa”, Valori n° 121, Settembre 2014, pag. 19


Alti stipendi = alti rendimenti? Dal 2008, quando la crisi finanziaria è esplosa in tutta la sua gravità, questa equazione per le grandi banche non funziona più. Al contrario: a guadagnare sempre di più sono manager che ottengono risultati sempre più deludenti. Lo scrive un rapporto di SNL Financial, citato dal quotidiano economico tedesco Handelsblatt.
Una ricerca dell’Università di Cambridge (riportata dall’Economist) sostiene che l’aumento dei bonus dei manager sarebbe la conseguenza diretta dell’attribuzione di incarichi ben retribuiti a società esterne, a cui viene richiesto di determinarli. Il rapporto tra lo stipendio del direttore generale di una grande impresa negli Stati Uniti e quello di un impiegato era 20:1 nel 1965. Oggi è pari a 295,9:1.
SNL Financial si può seguire su twitter: @SNLFinancial


Si è parlato molto e giustamente degli accordi fiscali segreti tra il Lussemburgo e una lunga lista di grandi imprese multinazionali, anche perché il primo ministro del Granducato dal 1995 al 2013 è stato nientemeno che Jean-Claude Juncker, oggi presidente della Commissione Europea. Si è parlato un po’ meno delle imprese italiane coinvolte e ancora meno delle banche. Al link indicato sopra si possono individuare tutte, dalla prima all’ultima.


Dopo gli stress test della Banca Centrale Europea, Montepaschi è finita dietro la lavagna, con un buco accertato di 2,1 miliardi di euro. Ora si promette di colmarlo con un ennesimo aumento di capitale, che si farà però solo l’anno prossimo dopo l’approvazione del bilancio, prevista per il 29 Aprile, quando si festeggia Santa Caterina da Siena: patrona della città, dell’Italia e dell’Europa intera. Un’idea ingegnosa che permette di prendere tempo in attesa di nuovi sviluppi e magari di qualche interessante offerta d’acquisto.
Nel frattempo si è fatto avanti una certa Nit Holding Limited di Hong Kong, con 10 miliardi di euro. In Italia la rappresenta il duca Rodolfo Varano di Camerino, già indagato per aver tentato di comprare la Banca Popolare di Spoleto con bond brasiliani del 1972 di un valore totale compreso tra 0,24 millesimi e 800 e passa milioni di euro: gli ormai famosi bond “patacca”. Anche sui 10 miliardi offerti a MPS è stata avviata un’inchiesta da parte della Consob.


Ogni tanto una buona notizia anche in #bassafinanza. A Lipsia, in Germania, Davide ha vinto contro il gigante Golia. Il gigante bancario svizzero UBS aveva fatto causa per 400 milioni di euro al gestore dell’acqua di Lipsia (KWL, Kommunale Wasserwerke Leipzig) per una serie di obbligazioni strutturate sottoscritte da KWL e non onorate. CDS (Credit Default Swap), CBL (Cross Border Leasing) e CDO (Collateralized Debt Obligation) per 319,8 milioni di dollari utilizzati per impacchettare i debiti sorti a seguito della ristrutturazione (nel 2003) della rete di distribuzione dell’acqua.
I rischi, sostiene ora l’Alta Corte di Giustizia di Londra che ha seguito il caso, sono a carico di UBS, anche perché le obbligazioni sono state sottoscritte dall’ex direttore di KWL Klaus Heininger – nel frattempo condannato per corruzione – all’insaputa degli organi di sorveglianza. UBS ha annunciato ricorso.


Gli stress test della BCE hanno messo sul banco degli imputati soprattutto l’Italia. 9 tra le 25 banche europee che non hanno passato i test sono italiane. E le grandi banche di investimento tedesche e francesi gonfie di derivati? Sono passate senza battere ciglio. Peccato che Deutsche Bank, solo per fare un esempio, abbia titoli illiquidi – cioè senza un prezzo di mercato – che a fine 2013 erano pari a 30 miliardi di euro a fronte di 47 miliardi di capitale. Se i mercati dovessero piombare in una nuova crisi finanziaria, Deutsche Bank si ritroverebbe la pancia piena di titoli che non riuscirebbe a vendere (o sarebbe costretta a svendere).
Gli stress test si basano però su altre assunzioni. La principale è quella secondo cui occorrerebbe più capitale alle banche esposte al credito (come le banche italiane) che non al trading e alla speculazione finanziaria (come le banche del nord Europa). E che importa se Deutsche Bank è uno zombie pieno di titoli tossici. L’importante è che riesca a stare in piedi fino alla prossima crisi, nel corso della quale salterebbero comunque tutti gli schemi e alla fine interverrebbero gli stati. E lo stato tedesco, si sa, ha le spalle ben più larghe di quello italiano.