Brexit, Irlanda e finanza. La fuga da Londra avvantaggia Dublino

Dopo la Brexit molte imprese della finanza si sono spostate da Londra. La destinazione preferita? L'Irlanda

A causa della Brexit molte imprese finanziarie con sede a Londra hanno scelto di trasferirsi a Dublino © anyaivanova/iStock

La Brexit è ormai pienamente operativa, e il referendum per l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea è vecchio ormai di anni: gli effetti sulla City di Londra che iniziano a vedersi. Così l’Irlanda, geograficamente e culturalmente vicina al Regno Unito ma parte dell’Ue, ne sta traendo vantaggio. Attirando ancora di più il mondo della finanza.

Brexit: la fuga da Londra è un affare per l’Irlanda

Secondo il think tank New Financial, nel periodo 2016-2021 più di 440 tra banche e imprese finanziarie hanno trasferito la sede o parte delle loro attività e del loro staff dal Regno Unito. Il 25% di esse (ovvero 139) si è spostato a Dublino. Persino più di quelle che sono andate in Lussemburgo, ad Amsterdam, a Francoforte e a Parigi (anche se i trasferimenti più importanti, in termini di posti di lavoro e di asset, dovrebbe riguardare le ultime due).

Ancora più sorprendente è la cifra relativa agli asset bancari trasferiti: ben 900 miliardi di sterline. Circa il 10% dell’intero sistema bancario inglese. Ed infatti le attività delle banche in Irlanda sono aumentate notevolmente, passando dai 300 miliardi di dicembre 2015 ai 500 miliardi di luglio 2021. Lo sa bene Citigroup, le cui attività sono più che raddoppiate, passando da 50 miliardi di euro del 2018 a 115. Dopo essere stata la prima banca straniera ad approdare sull’isola, nel 1965, nel 2016 ha spostato la sede europea proprio a Dublino. Dove addirittura sta trattando per comprare per 100 milioni di dollari una nuova sede da 300mila metri quadri. I dipendenti attuali, circa 2.500, dovrebbero aumentare di 300 unità.

Oltre a Citigroup, tra le altre banche si sono spostate almeno in parte in Irlanda: è il caso di Barcalys, Bank of America, JP Morgan. Ma anche i dipartimenti che si occupano di gestione patrimoniale di Morgan Stanley e Goldman Sachs. E infine, persino Coinbase (il più famoso exchange di criptovalute) e Standard & Poor’s. Insomma, non c’è dubbio: la fuga da Londra sta avvantaggiando Dublino.

A pesare è il regime fiscale ultra-favorevole offerto dall’Irlanda alle società finanziarie

Entrata nella Comunità economica europea nel 1973 come uno degli Stati più poveri, l’Irlanda col tempo si è trasformata profondamente. Tanto da guadagnarsi negli anni Novanta l’appellativo di “tigre celtica”, prendendolo in prestito dalle cosiddette “tigri asiatiche”. Ma questa crescita senza precedenti è anche frutto di un regime fiscale particolarmente favorevole. Che ha trasformato lo Stato in una sorta di paradiso fiscalo interno dell’Unione europea.

La luna di miele inizia nel 1987 quando nella zona portuale ormai dismessa (le “Docklands”) viene istituito il Centro internazionale per i servizi finanziari (IFSC). Cioè un’area economica speciale (in pratica una zona franca) con una tassazione per le imprese al 10%. Nel 1996, anche su spinta europea, la tassazione viene alzata al 12,5%, ma estesa a tutto il territorio nazionale. È allora che iniziano ad arrivare molte imprese della Silicon Valley, donando alle vecchie Docklands il soprannome di Silicon Docks. Tra le aziende presenti oggi figurano Google, Microsoft, Facebook, Apple, Twitter e LinkedIn. Ma anche Zalando, Airbnb, TripAdvisor, Indeed, Amazon e Paypal.

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Tra l’altro, proprio in quegli anni, e proprio in Irlanda, viene lanciato il primo ETF europeo, altro settore in cui oggi lo Stato celtico è leader in Europa. Anche in questo caso superando persino il Lussemburgo.

Crisi, Troika, ripresa. Da tigre a fenice celtica

L’ascesa di Dublino come centro finanziario si interrompe con la crisi del 2008 dovuta alla folle crescita del mercato immobiliare e a cui segue una crisi bancaria profondissima. Come in tanti altri Stati, il governo si fa carico del salvataggio delle banche diventandone azionista. Nel 2012 il rapporto debito pubblico/Pil schizza al 120% (dal 42% del 2008). A questo punto il Paese chiede aiuto alla cosiddetta Troika (Bce, Commissione Europea e Fondo monetario internazionale). Dalla quale riceve quasi 70 miliardi di euro.

Passato quel momento buio l’economia irlandese ricomincia a correre, registrando nel 2015 una crescita del 26%. A questo punto la tigre europea si è trasformata in fenice (così titolava un articolo dell’Economist di novembre 2015). Ma era una crescita reale? Non secondo il Premio Nobel per l’Economia Paul Krugman. Che in un tweet del 2016 definisce l’economia irlandese «leprechaun economics». Ovvero “economia da folletti” (il leprechaun è il tipico gnomo irlandese).

Proprio in seguito a queste critiche circa l’attendibilità della misurazione del Pil in un Paese dove i profitti registrati vengono realizzati altrove, l’Istituto di Statistica irlandese inizia ad adottare un nuovo parametro di misurazione della crescita. Il Prodotto Nazionale Lordo Modificato.

L’impatto della finanza sull’economia reale irlandese

In questi trent’anni di crescita economica quasi ininterrotta gli effetti positivi si sono visti. Basti pensare che la popolazione è cresciuta dai 3,5 milioni del 1990 a più di 5 milioni nel 2021. Il problema, semmai, è che la maggior parte dei profitti qui registrati viene inviato e reinvestito all’estero. Di 4mila miliardi di euro di asset complessivi, meno del 2% è reinvestiti nell’isola. Di conseguenza, le attività registrate nel Paese non si trasformano in nuova ricchezza per i cittadini.

Gli effetti positivi sulla manodopera si sono però visti. Da un milione di lavoratori del 1990 (di cui 50mila di origine straniera) il valore è raddoppiato a due milioni già nel 2000 (700mila gli stranieri). Per poi diminuire nel periodo della crisi e tornare ad aumentare subito dopo, arrivando nel 2021 a quasi 2,4 milioni.

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Il settore della finanza internazionale da solo vanta più di 52mila dipendenti (+2.200 solo nel 2021). Secondo le previsioni contenute nell’ Ireland for Finance Action Plan (un piano strategico elaborato nel 2019 e aggiornato quest’anno) da qui al 2026 il settore finanziario internazionale dovrebbe creare altri 5mila posti di lavoro. Numeri ancor più sorprendenti se si pensa che nel 2015 erano appena 35mila.

Infine, l’Irlanda è oggi il terzo Paese al mondo (il secondo in Europa dopo il Lussemburgo) per numero di fondi di investimento che hanno qui il proprio domicilio. Per un totale di circa 4mila miliardi di euro di asset gestiti. Un valore in continua crescita da anni. Inoltre, undici delle quindici più grandi imprese assicurative globali (con più di 25 milioni di clienti sparsi in 100 Paesi) hanno sede qui. Rimangono pochi dubbi sulla natura “paradisiaca” (fiscalmente, s’intende) della nazione celtica.