Il caldo estremo e il principio del “worst in class”

In piena ondata di caldo estremo, l’Europa propone più “flessibilità” sugli obiettivi climatici. In nome della competitività, anche a costo del Pianeta

No, non è possibile affermare senza approfondire il fatto che l’ondata di caldo che ormai da giorni non dà tregua in mezza Europa (Italia inclusa) sia dipesa dai cambiamenti climatici. Negazionisti e ignoranti di ogni dove, rasserenatevi. C’è una branca scientifica relativamente nuova che si occupa di questo: dimostrare che un singolo fenomeno meteorologico sia davvero stato innescato – o per lo meno esacerbato – dal riscaldamento climatico in atto. 

Ma è invece più che assodato che l’aumento della temperatura media globale, provocato principalmente dalla combustione di carbone, petrolio e gas, renderà (anzi, sta già rendendo) più frequenti e violenti gli eventi estremi. Dai periodi di prolungata e intensa siccità alle piogge torrenziali, passando proprio per le ondate di caldo. Da anni innumerevoli paper scientifici lanciano allarmi in questo senso. Studi specifici hanno spiegato inoltre che ciò che stiamo vivendo non è nulla rispetto a quello che ci aspetta nei prossimi decenni. 

Nello scorso gennaio è stata pubblicata un’analisi che ci offre una fotografia di come sarà vivere in 854 città europee quando saremo davvero in piena crisi climatica. Gli autori indicano che «anche con un’attenuazione del 50% del rischio di mortalità legata al caldo, la maggior parte della regione mediterranea subirebbe comunque un sostanziale aumento della mortalità legata alla temperatura». Ciò prendendo in considerazione lo scenario SSP3-7.0: un’ipotesi intermedia tra quelle più pessimiste e quelle più ottimiste, ma che non è inimmaginabile visto l’andamento attuale e la sostanziale inazione dei governi di tutto il mondo. Senza sorpresa, le città nelle quali si patirebbero le condizioni peggiori sono quelle situate nel bacino mediterraneo in Spagna, Francia, Italia, Grecia, Portogallo, Malta.

In Francia è stata condotta nello scorso ottobre un’enorme esercitazione battezzata «Parigi a 50 gradi», per preparare la popolazione a vivere in condizioni estreme. Il Comune della capitale transalpina ha coinvolto associazioni di abitanti e di quartiere, scuole di ogni ordine e grado, organizzazioni non governative, pompieri, soccorritori, protezione civile e forze di polizia. Lo scenario ipotizzato: è il 25 giugno 2032 e dopo giorni di temperature a più di 40 gradi centigradi è annunciato un picco a 50. 

Tutto questo cosa ci dice? Che non è solo la scienza ad essere cosciente della situazione, ma anche le autorità. O, almeno, qualcuna: difficile immaginare che un’esercitazione simile possa essere organizzata a Washington nell’era-Trump o a Roma nell’era-Meloni. La questione, d’altra parte, è squisitamente politica. Come sempre, del resto. 

Lo dimostra il recente orientamento della Commissione europea. Di fronte a tutte queste evidenze scientifiche, di fronte a indiscutibili necessità di adattamento, soprattutto nelle grandi città, e in piena ondata di caldo estremo che cosa hanno pensato bene di decidere a Bruxelles? L’organismo esecutivo dell’Unione europea ha proposto di introdurre della «flessibilità» rispetto all’obiettivo di ridurre del 90% le emissioni di gas a effetto serra dei Ventisette entro il 2040. 

In pratica, sarà possibile comprare carbon credit anche al di fuori dell’Ue per raggiungere gli obiettivi nazionali dei Paesi membri. Sarà infatti presentata una normativa ad hoc per evitare, a partire dal 2036, di basarsi unicamente sulle riduzioni di emissioni realmente centrate da ciascuno Stato europeo. Inoltre, i governi avranno maggiore margine di manovra nella scelta dei settori economici che contribuiranno di più all’obiettivo complessivo fissato al 2040. 

Il motivo? Si ritiene che le imprese europee possano trovarsi in difficoltà, tra guerre commerciali e armate, crisi energetiche ed economiche. Si teme che possano non essere più «abbastanza competitive». Per cui, ecco la soluzione: affievolire gli oneri climatici. Tanto se la transizione non la fanno Stati Uniti e Cina, che la facciamo a fare noi? Ce l’ha spiegato anche Mario Draghi, no? «La competitività prima di tutto». Adeguiamoci a chi fa peggio. Il principio del worst in class.  

Nessun commento finora.

Lascia il tuo commento.

Effettua il login, o crea un nuovo account per commentare.

Login Non hai un account? Registrati