Oltre al lucro c’è di più: dilagano le imprese certificate B Corp. In Italia valgono 5 miliardi
Insieme alle Società Benefit, assicurano impatti socioambientali positivi. In Italia se ne contano 100, che danno lavoro a 9mila persone
Aboca. All’inizio in ordine alfabetico ma tra le ultime in ordine di tempo ad aggiungersi all’ormai folta pattuglia di imprese italiane che hanno acquisito la certificazione come B Corporation (o B Corp). Ma cosa significa questa certificazione? Chi sono e quanto valgono le B Corp italiane? E come si differenzia e relaziona questa certificazione con lo status di Società Benefit sancito dalla legislazione nazionale?
La risposta alle domande non è scontata se non si è esperti della materia, che di per sé, anche a causa del boom di marketing e comunicazione sulla sostenibilità (greenwashing incluso), risulta scivolosa.
Aboca, nuova B Corp grazie ad ambiente e lavoratori
Partiamo dai fatti. Aboca ha ottenuto la certificazione come B Corp a novembre 2019 con un punteggio piuttosto elevato, 116,2 su un massimo di 200. Un po’ più di quanto abbia invece registrato complessivamente il gruppo di cui fa parte (112,7). «Questa soglia – scrive Aboca a proposito del risultato – rappresenta il punto di pareggio tra quanto l’azienda prende dalla società e dall’ambiente rispetto a quanto restituisce, passando da un modello puramente estrattivo a uno rigenerativo».
Azienda agricola specializzata nella produzione di dispositivi medici, integratori alimentari e cosmetici biologici di origine naturale, Aboca ha sede a Sansepolcro e stabilimenti a Pistrino, sempre in provincia di Arezzo, e si è sottoposta al Benefit Impact Assessment (BIA), il sistema di valutazione di riferimento sviluppato dall’ente non profit statunitense B Lab, promotore dello standard che prevede uno score minimo di 80 punti per ottenere l’attestazione. Un sistema di valutazione indicato anche dalle Nazioni unite per misurare il progresso delle aziende verso gli obbiettivi di sostenibilità 2030.
La compagnia toscana ha quindi svolto un’autovalutazione dell’impatto secondo alcune prescrizioni, relative a quattro aree principali (governance, lavoratori, comunità e ambiente). A ciò è seguito un processo di ulteriore valutazione e verifica da parte degli esperti dello Standard Trust di B Lab, che le hanno infine assegnato il punteggio. E a quel punto, visto che ha superato la soglia minima, l’azienda ha acquisito la certificazione e ne può disporre, pagando una quota annuale stabilita in funzione del fatturato. Completando un percorso che nel nostro Paese è facilitato e coordinato da Nativa Lab, prima Certified B Corp in Europa e partner di B Lab.
L’idea dell’impresa B Corp diventa legge con le Società Benefit
Così, Aboca è entrata a far parte di un novero di imprese for profit che possono sì esibire “la medaglia”, ma sono anche tenute a rispettare standard rigorosi di impatto sociale e ambientale. Sia per conservare la certificazione di B Corporation sia per aver scelto di assumere lo status formale di Società Benefit (SB). In Italia, infatti, dove Nativa Lab registra il più alto tasso di crescita al mondo per le B Corp, si è voluto compiere un passo giuridico in più, traducendo in legge una forma giuridica d’impresa for profit che interpreta buona parte dei contenuti promossi nelle B Corporation.
Parallelamente alla facoltà di sottoporsi al processo di valutazione di B Lab, dal gennaio 2016 le imprese che ne hanno i requisiti possono perciò diventare Società Benefit: ovvero aziende che, nell’esercizio della loro attività, perseguono volontariamente anche una o più finalità di beneficio comune, oltre allo scopo di lucro. Tale caratteristica deve essere sancita nel loro statuto, dove si impegnano formalmente a creare un impatto positivo sulla società e la biosfera, e a misurare questo impatto «con la stessa completezza e con lo stesso rigore adottato per i risultati di tipo economico e finanziario», sottolinea Aboca.
L’Italia ci crede: 100 B Corp e 300 Società Benefit, ma qualche crepa da sistemare
Di più. Il nostro è stato il primo Paese al mondo, dopo gli USA, a introdurre la forma giuridica delle Società Benefit nel proprio ordinamento. Un riconoscimento formale delle imprese a duplice finalità che è inoltre approvato da 35 Stati Usa, nella provincia canadese della Columbia Britannica, in Colombia, Ecuador, Perù, Argentina e Francia. E un’altra ventina di nazioni starebbero lavorando in questa direzione.
Tra le B Corp italiane troviamo marchi come Chiesi Farmaceutici, Alessi, Fratelli Carli, D-Orbit, Slow Food Promozione, NWG energia. In tutto sono quasi 100, e fatturano complessivamente 5 miliardi di euro occupando circa 9mila dipendenti. A livello internazionale ci sono invece oltre 3200 B Corporation certificate, distribuite su 71 Paesi e 150 settori economici. Le Società Benefit italiane operative sono 317, stando ad una ricerca condotta da GoForBenefit, che svolge consulenza per aspiranti SB.
Buoni numeri e ottime prospettive, anche se c’è qualche “ma” da risolvere. Le Società Benefit sono ad esempio obbligate dalla Legge 208/2015 alla pubblicazione annuale della Valutazione d’Impatto. Ma l’obbligo è ampiamente disatteso: più del 90% delle imprese non lo rispetta. E anche per quanto riguarda le B Corporation, se lo standard prenderà ulteriormente piede, servirà sicuramente qualche aggiustamento per evitre rischi di green/socialwashing.
«Il BIA – risponde infatti Nativa Lab a Valori – è uno strumento sviluppato appositamente per catturare tutte le positività dell’azienda che si sottopone all’assessment (pratiche virtuose e/o modelli di business rigenerativi). Non c’è un sistema di penalizzazione per gli impatti negativi generati». E, sebbene «delle oltre 120mila aziende che utilizzano il BIA solo poco più di 3mila hanno ottenuto la certificazione finora», il fatto che nessuna impresa di nessun settore sia esclusa a priori potrebbe risultare un limite.
Calderini: concorrenza col Terzo Settore per contenuti…
Il pericolo di “inquinamento” attiene anche, in qualche modo, alla relazione tra le B Corp e quanto, imprenditorialmente, può assomigliare loro, o viceversa. «Il rapporto tra B Corp e Terzo Settore è un problema particolarmente complesso in Italia, e comunque è un problema generale» conferma Mario Calderini, docente del Gruppo di ricerca Tiresia del Politecnico di Milano. Le forme imprenditoriali del Terzo Settore, in primis cooperative e imprese sociali, si trovano fuori dalla porta una serie di società che sostengono, più o meno a ragione, di svolgere lo stesso tipo di attività nello stesso modo, ma non sono parte del Terzo Settore.
Quindi si verifica una concorrenza valoriale e di mercato di cui il Terzo Settore deve assolutamente tenere conto».
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…e come oggetto di investimenti responsabili
La vicinanza di forme e contenuti si traduce anche in percezione, trainando un aspetto vitale come è quello degli investimenti finanziari responsabili. Le B Corp, prosegue Calderini, «sono contraddistinte da uno standard che in qualche modo considero più serio e affidabile degli ESG (cioè criteri ambientali, sociali e di governance, ndr), che vengono molto utilizzati in questo periodo e sono spesso frutto solo di una autovalutazione. Per diventare B Corp bisogna passare anche attraverso una valutazione – sul posto e documentale – che non è una passeggiata».
Ciò non sfuggirebbe agli analisti della finanza d’impatto sociale, «soprattutto nelle sue forme più approfondite, che non si limitano alla lettura ESG», e che svolgono una ricerca molto attenta di imprese bersaglio proprio all’interno del Terzo Settore. Ed è qui che nasce un problema: «all’interno del Terzo Settore si trovano molte realtà interessanti sul piano dell’impatto sociale, ma troppo poco strutturate per essere oggetto di investimento. E allora le B Corp stanno diventando un target molto prezioso. Si tratta infatti di aziende più solide, che uniscono ad una capacità di impatto sociale reale anche una dimensione strutturata di business e manageriale».