Chi possiede (davvero) i bitcoin?

Il sogno del bitcoin era la democratizzazione finanziaria. Ma oggi è dominato da pochi: chi controlla davvero la criptovaluta più famosa?

L'immagine è stata realizzata dalla redazione di Valori.it utilizzando Midjourney

Una “rivoluzione” che prometteva, e ancora promette, la disintermediazione e la democratizzazione della finanza. Dati che mostrano una forte concentrazione nelle mani di pochi. Attraverso un’analisi sulle tendenze in atto, ragioniamo dei possessori della più importante delle criptovalute e delle conseguenze di quella che potrebbe diventare una “oligarchia dei bitcoin”.

Bitcoin: dalla promessa di decentralizzazione alla concentrazione di ricchezza

Bitcoin nasce nel 2009 come risposta a un sistema finanziario percepito come opaco, centralizzato e inaccessibile per milioni di persone. In parole semplici, bitcoin (BTC) è una moneta digitale completamente decentralizzata, ossia gestita da una rete globale di computer (nodi) senza la supervisione o il controllo di banche, governi o altre istituzioni centrali. La sua promessa principale è quella di restituire il controllo del denaro ai singoli individui, offrendo un’alternativa “permissionless”, dunque aperta a chiunque voglia accedervi senza restrizioni. Un messaggio particolarmente potente per gli “unbanked”: circa 1,4 miliardi di persone nel mondo che non hanno accesso ai servizi bancari tradizionali a causa di barriere economiche, sociali o politiche.

Bitcoin è stato presentato come uno strumento di emancipazione per questi esclusi dal sistema, consentendo a chiunque disponga di uno smartphone e di una connessione Internet di partecipare alla vita economica globale. Tuttavia, nonostante l’intento originario, i dati più recenti mostrano che la diffusione reale resta molto limitata: nel 2025 solo il 4% della popolazione mondiale detiene Bitcoin, con picchi locali di adozione, come negli Stati Uniti (14%), come rilevato da un report di River. Inoltre, emergono segnali chiari che la proprietà e il controllo effettivo dei bitcoin si stiano concentrando, a discapito dell’utopia della decentralizzazione. Questa realtà, in parte dovuta a meccanismi di mercato e barriere tecniche, mette in discussione il sogno originario e apre la strada a una domanda scomoda: Bitcoin è davvero uno strumento democratico, o sta diventando dominio di pochi soggetti potenti?

Le “balene” di bitcoin: chi sono e quanto possiedono

Nel gergo della comunità crypto, le “balene” (whales) sono quei soggetti che detengono quantità molto elevate di bitcoin, tanto da poter influenzare, almeno potenzialmente, l’andamento del mercato tramite le proprie operazioni. Queste entità possono essere vecchi pionieri, grandi investitori istituzionali, exchange centralizzati, fondi di investimento o soggetti statali. Ma quanto è davvero concentrato il patrimonio di bitcoin nel 2025?

I dati aggiornati danno un quadro sorprendente: si stima che meno del 2% degli indirizzi controlli più del 92% di tutto il bitcoin in circolazione, considerando sia portafogli individuali che quelli detenuti da depositari istituzionali e piattaforme di exchange (per intenderci quelle piattaforme che fanno da tramite nella compravendita di criptovalute). 

Tra i principali detentori identificabili, spicca innanzitutto l’inventore di Bitcoin (o il gruppo di inventori), Satoshi Nakamoto, che nonostante il suo anonimato detiene ancora oltre 1,1 milioni di BTC (circa il 5,2% del totale in circolazione). Seguono colossi come Binance, che gestisce più di 550mila BTC su diversi indirizzi usati per la custodia di fondi degli utenti, e aziende come MicroStrategy (oltre 461mila BTC) e BlackRock, che con il suo ETF IBIT è attestata intorno a 350mila BTC ma in costante crescita.

Non mancano nella lista attori istituzionali come il governo degli Stati Uniti, titolare di oltre 200mila BTC sequestrati in varie operazioni giudiziarie. Alcuni fondi come Robinhood e investment company come Marathon Digital Holdings figurano anch’essi tra i maggiori detentori. Da notare infine che molte “balene” sconosciute potrebbero raggruppare risorse di piccoli investitori che affidano le proprie criptovalute alle piattaforme centralizzate. Questa struttura di proprietà fa sì che una manciata di soggetti, in prevalenza privati ma anche pubblici, possano muovere consistenti volumi di mercato e, di fatto, avere un potere sproporzionato sui prezzi e sulla rete bitcoin rispetto agli utenti medi.

Le ragioni dietro la concentrazione: perché accade?

Se bitcoin nasce per essere un sistema inclusivo e aperto, perché in pratica assistiamo a una così marcata concentrazione della ricchezza digitale? Le cause sono molteplici e interconnesse. 

In primo luogo, l’accesso al mercato delle criptovalute richiede competenze tecniche, dalla gestione sicura dei wallet alla comprensione delle dinamiche di trading e custodia. Questo rappresenta una barriera d’ingresso significativa per molti utenti, in particolare nei Paesi a basso tasso di alfabetizzazione digitale.

Un altro fattore chiave è il costo dell’investimento: chi è arrivato presto ha potuto accumulare a prezzi bassissimi, mentre per le nuove generazioni di utenti entrare oggi comporta rischi elevati e l’esposizione a una volatilità notevole. I grandi soggetti istituzionali hanno risorse e strutture per reggere questa volatilità, ma anche per crearla come abbiamo visto, mentre i piccoli investitori spesso cedono durante le fasi di calo del mercato, trasferendo di fatto bitcoin proprio a chi ha maggiore forza contrattuale.

Non va dimenticato neppure il ruolo degli exchange centralizzati: queste piattaforme sono nate per rendere più semplice la compravendita e custodia delle criptovalute, ma hanno finito per accumulare grandi volumi di bitcoin sui propri indirizzi, di fatto ricreando forme di centralizzazione simili a quelle del settore bancario tradizionale. 

Altro nodo è la mancanza di comprensione e fiducia: la complessità tecnica (ad esempio la perdita delle chiavi private per l’accesso alle proprie crypto) e i rischi regolamentari scoraggiano la diffusione capillare. Ciò offre un vantaggio competitivo a chi dispone di team dedicati e infrastrutture interne per la custodia.

Infine, la stessa trasparenza della blockchain, se da un lato offre tracciabilità, dall’altro permette di rilevare concentrazioni e movimenti “anormali”, accentuando spesso l’effetto gregge degli investitori al dettaglio e aumentando l’influenza dei grandi player.

Satoshi e democratizzazione: una speranza per il futuro?

Un aspetto essenziale di bitcoin, e che non va trascurato quando si ragiona del possesso della massa in circolazione, è la sua divisibilità. Ogni bitcoin può essere suddiviso in 100 milioni di unità chiamate “satoshi”, permettendo così a chiunque di acquistare anche solo una frazione infinitesimale della criptovaluta. Questo teoricamente dovrebbe facilitare un’adozione di massa, poiché anche in presenza di prezzi assoluti molto elevati (nel 2025 il BTC ha a più riprese superato i 100mila euro) ogni individuo potrebbe accedere al mercato con pochi euro, diventando titolare di satoshi.

La divisibilità offre inoltre la possibilità di fare delle microtransazioni, facilitando l’uso di bitcoin come mezzo di scambio e non solo come riserva di valore, abbattendo potenzialmente le barriere all’entrata per chi dispone di risorse limitate. Nei paesi emergenti, la possibilità di inviare e ricevere anche piccoli importi senza intermediari bancari costituisce ancora una delle promesse più potenti della tecnologia blockchain.

Ma la domanda resta: sarà davvero sufficiente la divisibilità, e quindi i satoshi, per bilanciare il predominio delle grandi balene? Alcuni esperti sottolineano che la democratizzazione effettiva dipenderà dalla capacità della rete di offrire strumenti user-friendly, commissioni contenute e reale educazione finanziaria. Chi scrive ritiene siano necessarie anche competenze, almeno di base, in politica monetaria. Se queste condizioni si realizzeranno, la progressiva “frazionabilità” di bitcoin potrebbe facilitare la sua adozione come mezzo di scambio oltre che come riserva di valore, riequilibrando almeno in parte la distribuzione attuale.

Cosa comporta la concentrazione di bitcoin: rischi e scenari futuri

La concentrazione del possesso di bitcoin in poche mani solleva diversi interrogativi sul futuro della rete e sulla sua effettiva resilienza. Un primo rischio riguarda la vulnerabilità del mercato: grandi detentori possono potenzialmente manipolare il prezzo attraverso vendite massive o comportamenti concertati, aggravando la già nota volatilità di bitcoin e indebolendo la fiducia degli investitori retail. Questo potrebbe tradursi in ondate di panico e cadute accentuate, minando l’immagine di bitcoin come “bene rifugio”.

L’eccessiva concentrazione impatta anche sulla stessa visione di decentralizzazione che la tecnologia blockchain intende perseguire. Se la maggioranza dei satoshi resta bloccata su pochi wallet controllati da soggetti istituzionali o exchange, la capacità della rete di resistere a censura e ingerenze esterne potrebbe ridursi, fino a creare in prospettiva nuove forme di centralizzazione digitale.

Anche la promessa di inclusione degli “unbanked “potrebbe restare parzialmente disattesa. Se gli strumenti restano complessi e i costi elevati, le fasce fragilizzate della popolazione, proprio quelle a cui Bitcoin rivolge la sua promessa originaria, rischiano di rimanere tagliate fuori, o di restare marginali rispetto al potere decisionale sulle evoluzioni della rete.

Infine, una presenza forte di fondi e Stati tra i grandi detentori potrebbe accelerare la regolamentazione del settore: da un lato una maggiore tutela per l’utente medio, dall’altro il rischio che aumentino le barriere normative e la concentrazione del potere fra pochi soggetti influenti.

Conclusioni: è possibile riequilibrare il potere nel mondo bitcoin?

Dopo oltre quindici anni dalla sua nascita, bitcoin si trova a un bivio tra ideale e realtà. Da un lato resta la potenzialità di uno strumento teoricamente in grado di rivoluzionare la finanza e portare accesso al credito a milioni di persone escluse dai circuiti tradizionali. Dall’altro emergono segnali inequivocabili che la proprietà dei bitcoin si sta concentrando nelle mani di pochi, allontanando la rete dal sogno originario di perfetta decentralizzazione.

Questo non vuol dire che la partita sia chiusa. La consapevolezza e la trasparenza offerte dalla blockchain permettono di monitorare costantemente lo stato della distribuzione della criptovaluta, offrendo dati chiari e pubblici su tendenze e rischi. All’utente comune è richiesto uno sforzo di comprensione e formazione, necessario per non restare vittima dei cicli speculativi, o addirittura di iniziative truffaldine, che arricchiscono i “soliti noti”.

La domanda finale, quindi, resta aperta: bitcoin riuscirà a mantenere la sua promessa di inclusione finanziaria, o sta diventando, nonostante tutto, uno strumento sempre più nelle mani di pochi potenti? La risposta dipenderà dalle scelte di milioni di utenti e dalle strade che la comunità internazionale deciderà di percorrere nei prossimi anni.


Glossario Eticoin criptovalute

Indirizzo Bitcoin

Un indirizzo Bitcoin è come il numero di conto corrente nel mondo delle criptovalute; una sequenza di caratteri (lettere e numeri) che indica dove inviare o ricevere bitcoin.

Proprio come quando per ricevere un bonifico occorre dare il proprio IBAN, per ricevere bitcoin bisogna condividere l’indirizzo Bitcoin. Gli utenti possono creare infiniti indirizzi Bitcoin gratuiti (come avere tanti “conti” diversi) e ognuno di essi è pubblico e visibile a tutti sulla blockchain.

Un indirizzo tipico assomiglia a questo: 1A1zP1eP5QGefi2DMPTfTL5SLmv7DivfNa (nello specifico si tratta del “Genesis address”, l’indirizzo di Satoshi Nakamoto che contiene i primi 50 bitcoin minati nella storia della criptovaluta).

Quando qualcuno vuole inviare bitcoin, inserisce l’indirizzo nel suo wallet, specifica l’importo, e la transazione viene registrata permanentemente sulla rete Bitcoin in favore del destinatario.


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