La Cina ratifica due convenzioni contro il lavoro forzato
L'ILO ha accolto con favore la decisione sul lavoro forzato da parte della Cina, ma rimangono preoccupazioni per la vicenda degli uiguri
Il Congresso nazionale della Repubblica Popolare Cinese ha ratificato due convenzioni che proibiscono il lavoro forzato. L’annuncio è stato accolto con favore dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), che si dice disponibile a collaborare con il governo cinese per la piena implementazione delle convenzioni stesse e dei principi e diritti fondamentali dei lavoratori.
Esistono infatti otto convenzioni, che riguardano, insieme al contrasto al lavoro forzato, quello al lavoro minorile, nonché la promozione della libertà di associazione e di contrattazione collettiva. Quattro principi ritenuti fondamentali dai Paesi che aderiscono all’ILO.
Le due convenzioni del 1930 e del 1957
La Convenzione sul lavoro forzato del 1930 definisce tale pratica come «ogni lavoro o servizio estorto a una persona sotto minaccia di una punizione. O per il quale detta persona non si sia offerta spontaneamente». La successiva Convenzione sull’abolizione del lavoro forzato specifica alcune forme di coercizione: il lavoro come forma di sanzione nei confronti di chi manifesta dissenso politico. O come misura di disciplina o di discriminazione. O ancora come metodo di mobilitazione della manodopera ai fini di sviluppo economico.
Sembra impossibile, ma la schiavitù è ancora realtà
I dati del Global Estimates of Modern Slavery indicano che nel 2017 nel mondo erano 40,3 milioni le persone sottoposte a schiavitù moderna. Di queste, 25 milioni erano costrette a lavorare e 15 al matrimonio forzato.
Si tratta si un crimine molto diffuso, dunque. Come noto, anche i Paesi economicamente più sviluppati tendono a perpetuarlo. La maggior parte degli Stati vieta infatti tale pratica. Ma non impedisce alle imprese di sfruttare manodopera ovunque nel mondo. Spesso con scarsa attenzione alle condizioni lavorative. Attribuire la responsabilità ai Paesi in via di sviluppo, in tale contesto, serve solo a scaricarla.
Il Global Slavery Index della Walk Free Foundation evidenzia alcuni fattori di rischio. Migrazioni, conflitti, regimi repressivi. Ma anche discriminazioni, scarsa attenzione all’ambiente e imprese poco etiche. Dal punto di vista delle singole persone, la vulnerabilità economica spinge a cadere nelle trame del lavoro forzato. Gli ultimi dati risalgono al 2017. Ma la crisi pandemica – e l’instabilità economica che ne consegue – rischiano di indurre un maggior numero di persone in povertà e a rischio sfruttamento.
Cina: casi e preoccupazioni
In Cina si stimano 3,8 milioni di vittime, con un’incidenza del 2,8 per 1000. È utile contestualizzare questo dato: stiamo parlando della seconda economia del mondo per Pil e per esportazioni. Queste si fondano spesso su produzioni ad alta intensità di lavoro e a basso costo. Vi sono casi documentati di lavoro forzato nel settore edile, tecnologico, agricolo. Di estrema importanza è anche il lavoro forzato imposto dallo Stato. Il governo ha annunciato nel 2013 l’abolizione del lavoro rieducativo per detenuti. Ma esso continuava a persistere nelle statistiche del 2017.
La ratifica delle convenzioni è quindi oggetto di qualche dubbio. La Coalizione per la fine del lavoro forzato nella regione uigura teme che possa trattarsi di una scelta di facciata. Il governo cinese, infatti, continua a negare l’uso sistematico di lavoro forzato a danno di questa minoranza etnica. Che risulta largamente impiegata nel settore tessile, anche da parte di multinazionali occidentali.
La decisione del governo di Pechino, in ogni caso, rappresenta un passo avanti. Anche se il lavoro da fare rimane tanto. Intanto, sono state lanciate campagne come la “End Uyghur Forced Labour”, che hanno adesso un terreno ancora più solido per fare pressione affinché si ponga fine a tale violazione dei diritti umani.