Tra Cina e USA, per ora, non è cambiato (quasi) niente

L'accordo tra Cina e USA del 15 gennaio è poca cosa. I dazi commerciali restano in vigore, i problemi dei due Paesi sono tuttora irrisolti

Matteo Cavallito
Donald Trump e il vice premier Liu He dopo la firma dello U.S. China Phase One Trade Agreement il 15 gennaio 2020 © Shealah Craighead, The White House/Flickr
Matteo Cavallito
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La Cina è appena un po’ più vicina e i toni trionfalistici della Casa Bianca sono fuori luogo, tanto per Washington quanto per Pechino. L’accordo siglato mercoledì tra il presidente USA Donald Trump e il vice premier cinese Liu He certifica l’entrata in vigore dell’intesa preliminare sul futuro dei rapporti commerciali tra i due Paesi. La cosiddetta “fase uno”, preludio – si spera – a un accordo vero e proprio tra le due superpotenze, vale 200 miliardi di dollari, pari al controvalore delle merci a stelle e strisce che il Dragone si impegna ad acquistare nei prossimi 24 mesi.

Fin qui tutto bene, dunque, ma il contesto generale, per ora, resta sostanzialmente immutato. Gli USA si sono impegnati a non aggiungere ulteriori dazi; la Cina, dal canto suo, può continuare a garantire cospicui aiuti di Stato alle sue imprese in barba allo status di “economia di mercato” che le è ufficialmente riconosciuto dall’inizio del secolo. Il resto sono dichiarazioni più o meno generiche e non stupisce, in fondo, che qualche osservatore parli apertamente di vittoria cinese. Ma se così è – ed è possibile che lo sia – si tratta comunque di un successo relativo. Perché i problemi di Pechino, al momento, non sembrano affatto risolti.

La crescita in Cina? La più debole degli ultimi 29 anni

Il vero grande impaccio – e non certo da oggi – è che la Cina cresce sempre di meno. Il che, si sa, è un grosso problema per l’economia globale nel suo insieme. Nel corso del 2019, ha riferito venerdì l’agenzia statistica nazionale di Pechino, l’economia cinese è cresciuta del 6,1%, il ritmo più basso da 29 anni a questa parte. Certo, sul risultato pesano anche i dazi americani. Ed è proprio per questo che il debole accordo di mercoledì non può risolvere, di fatto, alcun problema. La verità è che allo stato attuale lo scenario del gioco al massacro resta decisamente peggiore rispetto a quello del 2016, quando Trump entrò alla Casa Bianca lanciandosi nella sua agognata crociata protezionista. Un’ossessione che trova da sempre scarso sostegno tra gli economisti ma che pure resta un tratto distintivo dell’attuale amministrazione.

I dazi in vigore da entrambi le parti, nota il Financial Times, si collocano oggi attorno a quota 20%. Quattro anni fa i livelli delle tariffe commerciali viaggiavano rispettivamente al 3% (sulle importazioni cinesi in America) e all’8% (sull’export USA in Cina).

La Cina ha scelto la linea monetaria

Da tempo ormai la Cina ha scelto di contrastare il rallentamento economico adottando una politica monetaria particolarmente accomodante. Il 6 gennaio scorso la Banca centrale (People’s Bank of China, PBoC) ha introdotto l’ennesima misura espansiva tagliando, per l’ottava volta dal 2018, i requisiti minimi sulle riserve degli istituti di credito con l’obiettivo di liberare 115 miliardi di dollari di fondi extra a sostegno dell’economia. Secondo gli analisti di Nomura, ripresi dal South China Morning Post, Pechino dovrebbe applicare quest’anno ulteriori stimoli monetari sebbene di portata minore rispetto a quelli del 2019. Nel corso del primo trimestre 2020, proseguono gli analisti, un tasso di crescita inferiore al 6% sarebbe «inevitabile».

Lo stimolo monetario però ha assunto al tempo stesso i classici contorni della trappola. Il mercato cinese pullula di debiti e anche questa non è una novità. Il loro valore nominale è incerto, figuriamoci quello reale. I crediti non performanti sono una minaccia concreta e le banche ombra – ovvero gli intermediari finanziari che non rientrano nel circuito creditizio tradizionale – stanno tornando in auge proprio per effetto della guerra commerciale. In sintesi: i dazi USA fanno rallentare l’economia e il governo allenta la stretta regolamentare sullo shadow banking per garantire nuovi stimoli alla produzione e ai consumi. Solo che così facendo si favorisce anche l’aumento del rischio sistemico, un problema serio – come denunciato di recente dalla Banca dei Regolamenti Internazionali – che continua a preoccupare Pechino e gli osservatori stranieri.

Sul deficit commerciale gli USA hanno già perso

Il vero problema di una guerra commerciale è che a conti fatti non vince mai nessuno. A giugno, un rapporto del Fondo Monetario Internazionale sottolineava come il conflitto USA-Cina avesse già penalizzato entrambe le parti, sia sul fronte della domanda che su quello dell’offerta. «Sono senza dubbio i consumatori americani e cinesi a uscire perdenti dalle tensioni commerciali», scriveva l’FMI e la valutazione trovava conferma nei numeri diffusi da una ricerca dell’Università di Harvard secondo la quale «il peso dei dazi sarebbe caduto in larga parte sulle spalle degli Stati Uniti».

In sostanza era accaduto questo: le importazioni dalla Cina si erano ridotte ma il calo era stato compensato da una crescita del più costoso import messicano, con buona pace della bilancia degli scambi. Tradotto: il deficit commerciale era rimasto relativamente stabile. Gli americani, in compenso, avevano pagato di più.