Il cacao può essere sostenibile. In Africa nasce una “ribellione virtuosa”

Dalla Costa d'Avorio al Togo alcuni produttori di cacao si ribellano alle regole dettate dai big mondiali del settore

Un coltivatore di cacao in Africa © World Bank/Flickr

Deforestazione, sfruttamento del lavoro, anche minorile, uso di pesticidi. Il cioccolato ha, troppo spesso, un sapore amaro. Eppure si moltiplicano le esperienze che, con successo, riescono a rendere sostenibile la filiera del cacao.

“Cibo degli dei”. Questo significa l’espressione maya “kakaw uhanal” da cui deriva il termine “cacao”. Secondo una leggenda azteca, infatti, l’albero del cacao fu un dono agli uomini del dio Quetzalcoatl. Una pianta rubata agli altri dei e i cui semi erano in grado di infondere forza. Dall’America centrale i Conquistadores portarono il cacao in Europa e la passione per la bevanda calda che se ne ricavava contagiò rapidamente tutte le corti del Vecchio Continente. Oggi non c’è angolo del Pianeta in cui non si consumi cioccolato, il principale derivato del cacao.

Ogni anno si producono nel mondo 5 milioni di tonnellate di cacao

Ogni anno nel mondo se ne producono 5 milioni di tonnellate. Il doppio rispetto a 30 anni fa. E il dato è in continua crescita. Se il cacao è utilizzato ovunque, sono principalmente due i continenti di produzione: America Latina e Africa. Da quest’ultima, in particolare, proviene il 77% del cacao acquistato dalle multinazionali dolciarie. Il 65% dell’offerta mondiale arriva in particolare da due soli Paesi: Costa d’Avorio e Ghana. L’Unione europea è il maggiore importatore.

Un prodotto il cui mercato vale 100 miliardi di dollari all’anno, che solo in parte vanno ai produttori: 2 miliardi, ovvero il 2%. La maggior parte dei profitti rimane nelle mani di chi si occupa della lavorazione delle fave e della distribuzione dei prodotti lavorati.

Un pugno di multinazionali determina il prezzo del cacao

Perché il cacao non genera ricchezza per i Paesi produttori? Perché a decidere i prezzi sono le grandi aziende che controllano il mercato. Cargill, Olam, Barry Callebaut. E quelle che lo trasformano in cioccolato: Mars, Nestlé, Ferrero, Meji. E nessuna di loro è africana. «Ai produttori è di fatto impedito di trasformare localmente la materia prima», dichiara Andrea Mecozzi, fondatore di Chocofair e uno dei massimi esperti del settore in Italia. «Le ragioni che impediscono di sviluppare processi di trasformazione nei Paesi produttori della materia prima sono soprattutto politiche».

la catena di valore del cacao
La catena di valore del cacao © “Commercio equo e solidale. Buono per chi lo produce, per chi lo consuma, buono per cambiare il mondo”. Elaborazione a partire da Cocoa Barometer 2012

L’organizzazione del sistema economico globale ha assegnato ai Paesi in via di sviluppo il ruolo di produzione e esportazione di materie prime, costringendoli a importare beni da altre nazioni. Frenando lo sviluppo di un’economia locale in grado di generare ricchezza. Ed è quello che succede anche con il cacao. Arrivando a casi emblematici e paradossali, come quello della Costa d’Avorio che, come sottolinea Mecozzi, «produce troppo. Le multinazionali, remunerando la quantità e non la qualità, hanno spinto i coltivatori ad aumentare la produzione. Abbandonando le antiche varietà che potevano essere coltivate a biologico con altre che producono di più, ma impoveriscono il terreno e incentivano la deforestazione». Così, l’eccesso di produzione fa sì che il prezzo, determinato dai compratori, diminuisca.

La speculazione sulle materie prime

Il cacao, come altre commodities, viene acquistato dalle multinazionali attraverso il mercato. In particolare, ad essere acquistati sono dei contratti futures. Ovvero l’impegno ad acquistare a un prezzo predeterminato un bene di cui si usufruirà in futuro. I luoghi in cui si scambiano contratti futures sul cacao sono tre: ICE Futures US di New York, ICE Futures Europe e CME Europe di Londra.

Tali contratti sono usati, di fatto, da centinaia di anni per aiutare i contadini ad affrontare l’incertezza dei raccolti. Per esempio a causa di condizioni climatiche impreviste che possono comprometterli. Il loro scopo originario era consentire agli agricoltori di vendere i raccolti in una data futura a un prezzo garantito. Tuttavia, questi stessi contratti possono essere acquistati e venduti da speculatori che non hanno nessun interesse rispetto all’effettiva vendita del cibo. Invece, con il commercio dei futures possono trarre profitto se i prezzi cambiano nel corso del tempo. In sostanza scommettendo sul prezzo del cibo.

L’associazione dei produttori e la regolamentazione del settore

Nel 2019 Ghana e Costa d’Avorio hanno lanciato un’iniziativa congiunta che, grosso modo come l’Opec, l’associazione dei maggiori produttori di petrolio, mirava a regolamentare e tutelare il mercato del cacao. La “Copec” ha deciso di imporre agli importatori di cacao una tassa di 400 dollari a tonnellata, in aggiunta al prezzo di mercato determinato dalle quotazioni di Borsa. Dopo un’accettazione iniziale, le multinazionali hanno avviato una battaglia per non pagare la tassa. Arrivando ad agire sull’Intercontinental Exchange (Ice), la Borsa in cui vengono negoziati i futures di diverse materie prime come il cacao, il caffè, il cotone, lo zucchero. Ciò al fine di utilizzare le scorte immagazzinate per fronteggiare situazioni di emergenza. Bypassando così i due Paesi produttori.

Ghana e Costa d’Avorio hanno reagito con una campagna mediatica, accusando Mars e Hershey’s di non pagare la sovrattassa negoziata per aiutare i contadini a uscire da una condizione di povertà. Soprattutto ora che, a causa della pandemia, il prezzo del cacao è sceso riducendo ulteriormente i margini di guadagno degli agricoltori.

La mancanza di un’industria di trasformazione in Africa

Gli europei consumano la metà del cioccolato prodotta nel mondo (circa il 48%). Seguono l’America settentrionale (Stati Uniti 20% e Canada 4%), l’Asia (15%) e l’America Latina (9%). L’Africa, il continente nel quale si trovano i principali produttori di cacao, consuma solo il 3% del cioccolato e altri derivati che si producono nel resto del Pianeta. Un paradosso strettamente legato alla mancanza di un’industria di trasformazione del cacao nei Paesi produttori. Un paradosso che alcune esperienze pilota tentano di spezzare.

A Grand-Bassam, antica capitale della Costa d’Avorio, grazie al Gruppo Abele di Don Ciotti è nata Choco+, una cioccolateria che trasforma il cacao per produrre tavolette di cioccolato 100% ivoriano. Così da esportare prodotto finito o semifinito. Invertendo la prassi di importare tavolette e creme da spalmare prodotte a migliaia di chilometri. Che generano plusvalore altrove. Ma non è tutto: Choco+ è anche uno strumento di creazione di lavoro per i giovani ivoriani. E conta di allargare presto la produzione anche a cosmetici tratti dal cacao.

Il progetto si avvale inoltre della collaborazione con Trusty, una piattaforma innovativa che, sfruttando la tecnologia blockchain, permette di tracciare i prodotti, dai luoghi di coltivazione attraverso tutte le fasi di lavorazione. Il tema della tracciabilità è fondamentale per rispondere all’esigenza di trasparenza sia dei consumatori che delle aziende. Assicurando l’acquisto di un prodotto realizzato nel rispetto dell’ambiente e dei diritti umani.

In Togo, invece, esiste Choco Togo, una cooperativa nata nel 2014 che trasforma il cacao togolese bio. Producendo cioccolato per il mercato locale e per l’esportazione. Una realtà che dà lavoro a 85 persone, tra cui 45 sono donne. Sia i prodotti di Choco Togo che di Choco+ sono reperibili in Italia.

Deforestazione e utilizzo dei pesticidi non sono inevitabili

A M’Brimbo, un villaggio a 130 chilometri a nord-ovest di Abidjan, capitale economica della Costa d’Avorio, opera la SCEB, Société coopérative équitable du Bandama. Una federazione di oltre 250 coltivatori che, insieme, producono poco meno di 300 tonnellate di fave di cacao all’anno. Un progetto che ha permesso, da quindici anni a questa parte, di azzerare l’utilizzo di pesticidi e la deforestazione.

Nel 2008 – racconta il quotidiano francese Le Monde – erano appena una quindicina i coltivatori che si sono fatti convincere da Jean-Evariste Salo, promotore di questa iniziativa, a smettere di disboscare e usare pesticidi. La produzione era di 13 tonnellate di fave di cacao. Oggi il rendimento per ettaro non è aumentato. Ciò che è cresciuto è la qualità del prodotto e il benessere e la salute di chi coltiva il cacao. E della comunità nel suo complesso: a M’Brimbo è stato costruito un negozio, una scuola e un laboratorio di analisi del cacao ed è stato costituito un fondo di mutuo soccorso per i produttori in difficoltà.

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Fave di cacao essiccate © Irene Scott/AusAID

Essenziale per la riuscita del progetto è stato l’accordo con Ethiquable, azienda francese specializzata in prodotti del commercio equo e solidale. Quest’ultima acquista le fave di cacao prodotte dai membri della SCEB a un prezzo quasi doppio rispetto a quello minimo stabilito dalle autorità ivoriane. 1.350 franchi CFA contro gli 825 franchi CFA del mercato convenzionale (2,05 euro contro 1,25 euro).

Perché il cacao sia buono per chi lo consuma e chi lo produce

Ridurre lo sfruttamento di manodopera, fermare la deforestazione e l’utilizzo di pesticidi è possibile. «È una questione di volontà», dichiara Andrea Mecozzi. «Impedire ai Paesi produttori di materia prima di lavorarla in loco è una decisione politica. Ma far sviluppare l’industria della trasformazione del cacao nei Paesi produttori va contro gli interessi di chi oggi controlla il mercato: i colossi della trasformazione e del trasporto. L’Unione europea potrebbe fare molto». Ovvero l’area, come detto, nella quale si consuma la maggior quantità al mondo di cioccolato.