Clima e finanza, è l’ora dell’estremismo di buon senso
Il nuovo rapporto Banking on Climate Chaos conferma che il sistema finanziario, semplicemente, è incapace di affrontare la crisi climatica
Problema (fonte: IPCC, Special report 1.5, ottobre 2018): cosa succederà se dovessimo superare la soglia degli 1,5 gradi centigradi in termini di aumento della temperatura media globale, rispetto ai livelli pre-industriali? Passeremmo da una situazione di crisi ad una di catastrofe climatica.
Stato dell’arte (fonte: la comunità scientifica nella sua totalità): siamo fuori tempo massimo. Anche se smettessimo oggi di utilizzare fonti fossili e emettere gas ad effetto serra nell’atmosfera terrestre, rischiamo di sforare il più ambizioso degli obiettivi che la comunità internazionale si è fissata in termini di limitazione del riscaldamento globale (non superare gli 1,5 gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali).
Cosa fanno i governi (fonte Bloomberg Nef e Bloomberg Philanthropies): nonostante abbiano raggiunto e poi ratificato l’Accordo di Parigi, continuano a fornire migliaia di miliardi di dollari al settore delle fossili: carbone, petrolio e gas. Soltanto i Paesi del G20 ne hanno concessi 3.300 (e il dato è aggiornato al 2021).
Cosa fanno le banche (fonte Banking on Climate Chaos 2023): tre milioni e 700mila dollari al minuto. È quanto concesso, in soli sette anni, dalle 60 più grandi banche del mondo alle aziende che a vario titolo sfruttano carbone, petrolio e gas, il cui utilizzo ci allontana sempre più dagli obiettivi climatici che il mondo si è fissato con l’Accordo di Parigi del 2015. Altrimenti detto: 88 milioni di dollari l’ora; più di 2,1 miliardi al giorno.
Siamo nel 2023, inoltrato. Chi nacque quando fu approvato il primo documento internazionale per il contrasto ai cambiamenti climatici – il Protocollo di Kyoto (era l’11 dicembre del 1997) – oggi ha 26 anni. Chi nacque quando fu approvato l’Accordo di Parigi del 2015 oggi ne ha 8. In mezzo, c’è stata una delle peggiori crisi finanziarie della storia, seconda forse soltanto a quella del ’29: nel 2008 crollò l’intero sistema, trascinando con sé l’economia reale e imponendo clamorosi piani di salvataggio ai governi (con soldi dei contribuenti). Si calcola che furono spese decine di migliaia di miliardi di dollari, trovate in pochi mesi dagli Stati di tutto il mondo. Il recente salvataggio di Credit Suisse è costato almeno 50 miliardi di franchi svizzeri al governo di Berna (cioè ai cittadini elvetici).
Su cosa possiamo contare: la soluzione alla crisi climatica deve passare forzatamente dalla finanza ma non può passare da board e consigli di amministrazione delle banche. Lo confermano i piani per l’azzeramento delle emissioni che si stanno ammantando ormai di ridicolo. Dopo otto anni hanno dimostrato di non essere in grado di aggredire il problema. Forse perché incapaci di comprenderlo, forse per incompetenza, forse perché ritengono preferibile accontentare gli azionisti sul breve termine, forse perché ingolositi dal bonus legato alla trimestrale. Quale sia il motivo, a questo punto, è sostanzialmente irrilevante.
La realtà è che solo un intervento normativo, condiviso e coeso, da parte dei Parlamenti, può salvare l’avvenire delle future generazioni. La finanza non soltanto non è in grado di autoregolarsi, ma dimostra di non voler neppure rappresentare una guida nel processo di inevitabile transizione ecologica che dobbiamo affrontare. Servono regole, leggi, direttive. Imposizioni. Come chiedono da tempo organizzazioni non governative e movimenti per la salvaguardia del clima. Dobbiamo accettare, tutti, che il sistema economico e finanziario attuale, basato su logiche capitaliste, iper-produttiviste, consumiste e di sfruttamento insensato delle risorse, non è compatibile con il cammino che ci attende. Se questo significa essere estremisti, d’accordo: lo si chiami come si vuole. Ma se è tale, è estremismo di buon senso.