Gli indigeni, prime vittime dei cambiamenti climatici

Gli indigeni sono, spesso, le prime vittime dei cambiamenti climatici. Ma anche di strumenti e progetti che dovrebbero contribuire a mitigarli

Gli indigeni sono spesso le prime vittime dei cambiamenti climatici © Scott Wallace/World Bank

Le comunità indigene sono spesso in prima linea nell’opporsi a progetti dannosi per l’ambiente e il clima. E contemporaneamente, purtroppo, sono anche le prime vittime non solo dei cambiamenti climatici ma anche di iniziative e strumenti che – almeno in teoria – dovrebbero contribuire a porvi rimedio. Strumenti che, nati con l’obiettivo di compensare le emissioni, vengono usati come scusa per poter continuare a inquinare come prima, senza ridurre la dipendenza dal fossile. Questo è uno dei temi su cui pone l’accento il rapporto Banking on Climate Chaos.

Le comunità indigene: tanto importanti quanto inascoltate

Nonostante le comunità indigene rivestano un ruolo fondamentale nel proteggere gli ecosistemi naturali, spesso subiscono decisioni imposte da altri. I loro diritti e i loro luoghi natii sono minacciati dalla deforestazione (su cui spesso i governi chiudono un occhio), dall’estrazione di combustibili fossili, dall’agricoltura intensiva. Guarda caso, tutte attività che contribuiscono alla crisi climatica. Spesso intraprese senza il consenso libero, informato e preventivo che gli indigeni hanno il diritto di dare o non dare quando il progetto può impattare su di loro o sui loro territori.

Anche se a noi quei 5mila miliardi e mezzo di finanziamenti alle fonti fossili sembrano solo un numero, non è così per le persone che vivono in prossimità dei luoghi dove vengono estratte e processate (ma anche semplicemente trasportate). Spesso si tratta di lavoratori a basso reddito o piccoli proprietari terrieri, appartenenti alla comunità indigena o nera. E sono proprio loro ad essere colpiti per primi e in maniera più dura.

È il caso, ad esempio, della Nigeria e dei Paesi statunitensi che si affacciano sul Golfo del Messico. Dove coloro che subiscono in prima persona uragani e mareggiate sempre più forti, l’innalzamento del livello dei mari, nonché gli effetti duraturi di ingiustizie razziali e disuguaglianze storiche, sono gli stessi che convivono con una grande e sviluppata industria fossile.

La mitigazione dei cambiamenti climatici andrebbe a vantaggio anche degli indigeni

L’unico modo per salvaguardare i diritti degli indigeni è limitare i cambiamenti climatici. E l’unico modo per limitare i cambiamenti climatici è lasciare i combustibili fossili sotto terra (“keep it in the ground”, appunto). Un approccio che, bloccando tutte le nuove estrazioni, eviterebbe le emissioni di gas serra che aggravano il riscaldamento globale. Ma sarebbe anche rispettoso dell’autonomia, dei diritti e dei mezzi di sussistenza degli indigeni e, più in generale, delle comunità che vivono nei pressi dei diti estrattivi.

Nonostante ciò, le maggiori aziende petrolifere hanno registrato ricavi record nel 2022. Le sei più grandi – BP, Chevron, Exxon, TotalEnergies, Shell ed Equinor – hanno addirittura più che raddoppiato i profitti rispetto all’anno precedente, raggiungendo la cifra record di 219 miliardi di dollari (contro i poco meno di 100 del 2021). Non proprio un invito a impegnarsi per la transizione energetica. Anzi, semmai, dal loro punto di vista, un buon motivo per rimandarla. Tanto più finché iniziative di green washing lo consentono.

Le storture del sistema dei carbon credit

Spesso, infatti, gli impegni delle aziende per raggiungere le zero emissioni nette di anidride carbonica si basano solo in minima parte sul tentativo di ridurle e puntano tutto sugli strumenti per compensarle. Cioè sui carbon credit, certificati di riduzione delle emissioni conseguiti finanziando progetti di riforestazione, gestione forestale sostenibile, oppure l’installazione di impianti che producono energia da fonti rinnovabili.

L’intero sistema di questi strumenti di compensazione si basa sull’articolo sei dell’Accordo di Parigi (2015) che prevede e autorizza mercati internazionali delle emissioni di carbonio. Meccanismi di mercato ben accolti per la loro capacità di generare profitti e massimizzare il coinvolgimento del settore privato. Non certo per la loro efficacia nel ridurre le emissioni.

I più comuni sono proprio i “forest carbon credits” che rappresentano il 44% del totale. Grazie ad essi, imprese e governi che si impegnano a piantare, proteggere o conservare delle foreste possono compensare le proprie emissioni. Tutto molto bello, se non fosse che, probabilmente, il 90% dei crediti certificati dalla maggiore azienda globale del settore non rappresentano effettive riduzioni di CO2. E per questo, secondo il Guardian, rischiano di rivelarsi privi di valore o addirittura controproducenti.

Quando gli strumenti per compensare le emissioni minacciano le terre degli indigeni

Questi strumenti inoltre fanno emergere un’altra serie di problematiche che hanno un impatto diretto e negativo soprattutto sulle comunità indigene. È il caso – ad esempio – dell’accaparramento di terre (il cosiddetto land grabbing) per piantare alberi o installare pannelli fotovoltaici. Andando a ledere, spesso, la sovranità e i diritti umani stessi delle popolazioni indigene.

Ad esempio, nella Repubblica del Congo, quasi 500 agricoltori appartenenti soprattutto al popolo dei pigmei sono stati allontanati da un giorno all’altro dalle terre che coltivavano in affitto. Il motivo? Il proprietario ha preferito venderle alla filiale locale di TotalEnergies. Che lì rimpiazzerà i campi di manioca con una gigantesca piantagione di acacie. Per ottenere in cambio dei carbon credit con cui compensare le proprie emissioni. In sintesi, le cosiddette nature-based solutions (letteralmente “soluzioni basate sulla natura”) spesso sono dall’alto. I luoghi degli indigeni ne subiscono le conseguenze, mentre i vantaggi spettano tutti ai grandi poteri economici.

Per fermare i cambiamenti climatici, compensare le emissioni non basta

Dato l’aumento generale degli impegni per raggiungere le zero emissioni nette, la domanda per questi strumenti – e di conseguenza l’ampiezza dei problemi ad essi collegati – è aumentata significativamente. Nel generale vuoto legislativo e nella mancanza di linee guida internazionali. È la stessa Organizzazione delle Nazioni Unite a dirsi preoccupata. Nel report pubblicato a novembre e realizzato dal gruppo di esperti sugli impegni delle entità non statali per le zero emissioni nette, proprio in riferimento ai carbon credit, si legge: «Troppi attori non statali sono attualmente coinvolti in un mercato volontario dove i prezzi bassi e la mancanza di linee guida chiare rischiano di ritardare l’urgente riduzione delle emissioni necessaria per evitare i peggiori impatti dei cambiamenti climatici».

Insomma, queste soluzioni rischiano di distogliere l’attenzione dalle cause alla base dei cambiamenti climatici. Continuare a estrarre combustibili fossili, solo perché è possibile compensarle, rallenta l’impegno del sistema economico-finanziario per una transizione giusta verso un’economia più sostenibile. Un’economia che si svincoli dalle fonti fossili e, finalmente, protegga le persone e l’ambiente.