Clima e vite umane: il caro prezzo del carbone

Uno studio del CNR quantifica per la prima volta l'impatto del carbone sulla salute: la mortalità vicino alle centrali sale del 49%

Carbone. CC0 Public Domain da Pixabay.com

Vivere accanto a una centrale a carbone può portare a un aumento impressionante di mortalità per malattie cardiovascolari, respiratorie e tumori al polmone. La conferma arriva, per la prima volta, dallo studio «Mortality and hospitalization associated to emissions of a coal power plant», pubblicato su Science of the Total Environment«Il rischio sanitario è così elevato che, prima usciamo dal carbone, meglio è. La decarbonizzazione è necessaria, non solo per salvare il clima, ma anche vite umane». L’appello di Fabrizio Bianchi, responsabile dell’unità di ricerca dell’IFC- CNR di Pisa e co-autore dell’’indagine epidemiologica, è perentorio.

Schema del metodo scientifico applicato per il calcolo dell’esposizione ambientale agli inquinanti biossido di zolfo e azoto sulla popolazione di 144mila abitanti nell’area della centrale a carbone di Vado Ligure. FONTE: Science of the Total Environment

Un’indagine su 144mila cittadini

Lo studio dell’Istituto di fisiologia clinica del CNR di Pisa, ha elaborato i dati di mortalità e ricovero di 144mila cittadini che, dal 2001 al 2013, hanno vissuto intorno all’area della centrale a carbone di Vado Ligure. L’impianto ha operato dal 1970 fino a cinque anni or sono, quando la Procura della Repubblica di Savona fece fermare gli impianti per «disastro ambientale doloso». Il processo è tuttora in corso.

«Oltre alle note emissioni di anidride carbonica (CO2), che contribuiscono al riscaldamento globale, ci sono quelle di biossido di zolfo (SO2) e del particolato, che sono associate a effetti dannosi per la salute. I risultati confermano le conoscenze pregresse, ma è la prima volta che viene effettuata una quantificazione del rischio, purtroppo molto alto».

+49% di mortalità per malattie respiratorie e cardiocircolatorie

I dati epidemiologici, associati alle mappe di dispersione degli inquinanti elaborate da Arpal, confermano che, sui 144mila cittadini residenti nei 12 comuni, intorno alla centrale di Vado Ligure, c’è stato un aumento di mortalità del 49%. Nello specifico, per malattie del sistema circolatorio (uomini +41%, donne +59%), dell’apparato respiratorio (uomini +90%, donne +62%), del sistema nervoso e degli organi di senso (uomini +34%, donne +38%) e per tumori del polmone tra gli uomini (+59%). «Questo modello di studio può essere preso a standard per le altre aree italiane e europee, interessate dall’esistenza di una centrale a carbone- ribadisce a Valori il dirigente dell’IFC-CNR.

In Italia 9 centrali ancora attive, in Europa 291

In Italia, dopo la chiusura di Vado Ligure e Genova, sono tuttora attive 9 centrali a carbone, su un totale di 291 impianti funzionanti in tutta Europa. Sparse tra Lombardia, Liguria, Friuli Venezia-Giulia, Veneto, Lazio, Umbria, Puglia e Sardegna di proprietà Enel, A2a ed Ep Produzione. Da sole, secondo i dati dell’osservatorio civico Europe Beyond Coal hanno prodotto nel 2015, il 9% delle emissioni totali di anidride carbonica del nostro paese. Pari a 39,5 milioni di tonnellate di CO2. Insieme all’immissione in atmosfera di quintali di inquinanti come il biossido di azoto (NO2) e di zolfo (SO2) e la produzione di ceneri e fanghi.

Mappa delle centrali a carbone attive più inquinanti d’Europa. Fonte: Europe Beyond Coal

Da Tirreno Power a Enel: le aziende minimizzano

Diversi gli studi epidemiologici di sanità pubblica che sono stati al centro di pressioni e contestazioni, nel nostro Paese e nel resto d’Europa. Così è puntualmente accaduto anche per Vado Ligure, dove Tirreno Power, la società proprietaria, ora a processo per disastro ambientale e sanitario, ha subito bollato lo studio di IFC-CNR come «basato su dati vecchi».  Gli epidemiologi hanno ribadito che «purtroppo ancora una volta si è dovuto studiare a posteriori eventi avversi sulla salute, accaduti in passato. Eventi avversi che non sono ipotizzati o «teorici», come afferma Tirreno Power, ma sono decessi e malattie realmente avvenute».

Mappa delle nove centrali a carboni attive in Italia. Fonte WWF Italia, Stop al carbone.

Quel pericoloso vuoto normativo

Alla base di questi conflitti  c’è stato, finora, un vuoto legislativo che ha impedito approcci preventivi per la protezione della salute, nelle valutazioni di impatto ambientale degli impianti industriali e di centrali energetiche, effettuate solo a posteriori con la Valutazione di danno sanitario (Vds).

Mancanza che l’Italia ha colmato, in parte e solo ultimamente. In ottemperanza alla direttiva 2014/52/UE sulle valutazioni di impatto ambientale,  nel 2015, all’art. 9 della legge n. 221/2015 è stato inserito l’obbligo della Valutazione di impatto sulla salute. Un intervento preventivo, che deve coinvolgere le popolazioni interessate dalla costruzione di centrali termiche, grandi impianti di combustione, gli impianti di raffinazione, gassificazione, liquefazione. Ma le cui linee guida sono state varate, dal Ministero della Salute, solo il 29 marzo 2019. 

Dal carbone al gas… un passaggio non indolore

Come ha confermato recentemente il presidente del consiglio Giuseppe Conte in Sardegna, l’Italia abbandonerà il combustibile fossile solido, entro il 2025. Phase-out  ribadito dal Piano nazionale integrato energia e clima (PNIEC 2018). Ma la transizione non sarà così indolore, neppure con il gas, come già sottolineato sia dalla CGIL, da Greenpeace e Re-Common.

Intanto, due delle centrali a carbone italiane compaiono nei vertici della classifica stilata dalla Commissione europea, con i dati delle emissioni di CO2, relativi alle oltre 14mila società europee che aderiscono all’EU ETS  (European Union Emissions Trading System). Al 14esimo posto c’è la centrale termoelettrica di Torrevaldaliga, a Civitavecchia, nel Lazio. Nel 2018, ha prodotto 8,1 milioni di tonnellate di CO2. Al 35esimo posto la centrale Federico II a Cerano (Brindisi), con 5,4 milioni. Classifica ufficiale ribadita da Europe Beyond Coal che inserisce entrambe le centrali nelle prime 30 centrali più inquinanti d’Europa.

Le 30 centrali a carbone con maggiori emissioni di CO2 e inquinanti in Europa. Fonte Europe Beyond Coal, su dati 2018.

Gli studi epidemiologici su Brindisi

Proprio intorno alle due centrali, sono state realizzate, negli ultimi sei anni, diverse indagini epidemiologiche, alla base di un braccio di ferro tra le popolazioni residenti, epidemiologi pubblici e Enel, che ha più volte minimizzato e contestato gli studi. Così è successo nel 2015, con lo studio del CNR di Lecce e Bologna, che aveva calcolato «fino a 44 decessi l’anno attribuibili, nella zona di Brindisi, Taranto e Lecce dagli inquinanti emessi dalla Centrale Enel termoelettrica a carbone di Cerano». Studio che Enel aveva definito «fuorviante.

Nel 2017, un secondo studio epidemiologico sull’area di Brindisi, su cui insiste anche l’area del petrolchimico Eni Versalis, ha confermato il quadro precedente. «L’esame dei ricoveri ospedalieri in rapporto con le esposizioni ambientali stimate per ogni anno dello studio mostra un’associazione tra inquinanti e malattie cardiovascolari, respiratorie (centrali elettriche) e le malformazioni congenite (petrolchimico)». Nelle conclusioni, si sottolinea che la riduzione dei livelli di esposizione «non può cancellare gli effetti sanitari dovuti al pregresso».

Il ricorso di WWF e ClientEarth ancora pendente

Intanto risulta ancora aperto il ricorso al Tar del Lazio presentato da ClientEarth e del WWF, contro l’Autorizzazione Integrata Ambientale della Centrale Federico II di Brindisi, prolungata al 2028. «L’azione legale è attualmente pendente, in quanto il governo italiano ha chiesto a tutti gli operatori in Italia di presentare un rinnovo dell’autorizzazione, confermano a Valori i legali di ClienthEarth.

L’autorizzazione deve essere in linea con i nuovi standard di emissioni industriali e il piano governativo di uscita dal carbone entro il 2025. «Enel, in qualità di gestore della centrale Federico II, ha presentato una nuova richiesta di autorizzazione, ma, allo stesso tempo, ha impugnato il decreto del governo italiano con un ricorso al TAR del Lazio. Stiamo seguendo gli sviluppi» confermano da ClientEarth.

Le indagini della magistratura e l’esito dei processi

Le indagini della magistratura hanno, invece puntato i riflettori sulle attività di gestione. A febbraio 2019 sono stati condannati in secondo grado due dirigenti ENEL per lo sversamento di polveri di carbone sui campi agricoli, dovute alla mancanza di copertura dei nastri trasportatori e dei carbonili, questi ultimi rimasti scoperti fino al 2015.

https://twitter.com/UgoClientEarth/status/928258738015866881

Mentre lo scorso 16 ottobre la Dda di Lecce ha chiesto il rinvio a giudizio di 18 persone, di cui 11 manager Enel e 7 della Cementir (ora Cemintaly) di Taranto. Alla base dell’inchiesta, l’impiego improprio di ceneri della centrale, derivanti dall’abbattimento dei fumi di combustione, per realizzare cemento, tra il 2011 e il 2017.  Inchiesta che aveva già portato a sequestro con facoltà d’uso, nel settembre 2017, l’intera centrale, poi dissequestrata.

Secondo il report dell’Agenzia Europea dell’Ambiente, «Revealing the costs of air pollution from industrial facilities in Europe», già dieci anni fa, i danni ambientali e sanitari dell’impianto termoelettrico erano valutabili in almeno 500 milioni di euroA maggio 2019, come annunciato dallo stesso presidente di Regione Puglia, Michele Emiliano, Enel ha iniziato il percorso per la riconversione dell’impianto a gas.

Decarbonizzare: una questione di giustizia ambientale

«Bisogna spostare con urgenza l’attenzione sulle valutazioni preventive, anziché contare i danni sanitari che si sono già verificati» ribadisce Fabrizio Bianchi. «Oggi siamo in grado di fornire dati precisi sulla ricaduta degli inquinanti e del loro impatto sulle nostre vite» conclude il dirigente dell’IFC-CNR di Pisa. «Non dobbiamo guardare al passato ma fornire studi per un futuro sostenibile. Sia nell’ottica della decarbonizzazione che del cambiamento climatico. È una questione di giustizia ambientale».