Armi, carbone, Turchia: gli scheletri di Unicredit

Le strategie della principale banca italiana sono tra le più controverse: fortissimi investimenti in fonti sporche, comparti inquinanti e Paesi violatori di diritti umani

Antonio Tricarico
Antonio Tricarico
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Più di dieci anni fa, UniCredit era considerata la banca italiana modello. Quella che, sotto la sapiente guida di Alessandro Profumo, accettava le sfide della globalizzazione, non solo grazie alla fusione con Capitalia, ma anche con il take over senza precedenti di HypoVereinBank in Germania e l’espansione in tutto l’Est Europa fino alla Turchia, dove nel 2002 UniCredit fu la prima banca straniera a svolgere un ruolo attivo.

Un gruppo europeo, “sistemico” come poi le banche centrali definirono i principali competitor europei del settore con mire anche globali. Ma la corsa della banca si arrestò con la crisi finanziaria del 2007-2009, poi divenuta economica e sociale.

La vendita del gioiello Pioneer

I postumi di quel periodo così travagliato si sono trascinati fino a due anni fa, quando UniCredit, pur di risanare i suoi conti e ripulire il portfolio di crediti non performanti, decise di scrivere a bilancio 12 miliardi di euro di perdite e di vendere il suo gioiello dell’investment, il fondo Pioneer, poi comprato dai francesi di Amundi. Già nel 2011 UniCredit aveva avuto 10 miliardi di perdite compensate da un aumento di capitale, ma il valore della banca è rimasto sempre solo una frazione di quello che era. Comunque la presenza in Europa, soprattutto in Germania, Austria ed Est Europa rimane forte, ma meno nell’investment banking e sempre più nel business più tradizionale di banca commerciale. È stata quindi imparata la lezione e UniCredit si è messa sulla retta via una volta smaltita l’ubriacatura della finanziarizzazione dell’economia? Beh, a guardarci dentro ancora non si direbbe.

Tagli draconiani e investimenti opinabili

La banca è tornata in attivo solo lo scorso anno, tuttavia con un magro dividendo, vista la secca diminuizione dei profitti attesi a cause delle pesanti perdite subite dalla controllata Yapi Kredi in Turchia, in un contesto economico e monetario sempre più difficile. Parlando di capitalismo più o meno etico, non ci si può però fermare solo ai dividendi. Nell’ultimo decennio, i tagli al personale sono stati draconiani (da 91.952 a 86.786 dipendenti solo negli ultimi 12 mesi) ed è in ballo una nuova riorganizzazione del gruppo, con lo spostamento della principale holding in Germania e altri tagli al personale.

Il pericolo maxi-multe

All’ultima assemblea degli azionisti, l’elefante nella stanza sono state, però, le multe che la banca rischia di dover pagare. Sanzioni salatissime, come quella che potrebbe ammontare al 10% del fatturato totale e che potrebbe essere inflitta a UniCredit da parte dell’Antritrust UE per presunte violazioni della normativa sui titoli di Stato fra il 2007 e il 2012.

L’istituto di piazza Aulenti avrebbe creato un cartello con altri istituti europei (di cui non si conoscono i nomi, ma si vocifera che ci potrebbero essere Deutsche Bank e Credit Suisse). Una potenziale mazzata che farebbe il paio con l’ormai scontata sanzione da oltre 800 milioni di euro che UniCredit starebbe per pagare alle autorità statunitensi a causa di alcune transazioni con Teheran effettuate dalla affiliata tedesca Hvb.

Ambiente: impegno assente

Passando alla protezione dell’ambiente, ai tempi di Profumo la banca si pavoneggiava per i suoi impegni in materia: dalla firma degli Equator Principles, alla definizione di alcune policy settoriali, inclusa quella sulla vendita delle armi, rispondendo così alle campagne della società civile. Come nel caso dell’impianto nucleare di Belene in Bulgaria, dal cui finanziamento la banca è uscita – e il progetto è poi naufragato. Entrata in una partnership con il WWF Italia, il manager della Banca si è chiuso in un dialogo a porte chiuse e sempre meno ambizioso, rifugiandosi all’esterno in diverse iniziative di sponsorizzazioni e presunta corporate social responsibility.

Dopo dieci anni la banca è tra le peggiori a livello europeo, secondo l’autorevole rete della società civile BankTrack. Il ranking di UniCredit è molto basso in termini di policy ambientali rispetto ai competitors, ma soprattutto molti dei finanziamenti erogati vanno ancora a uccidere il clima del pianeta. Nel triennio 2016-2018, ben 16,9 miliardi di dollari sono finiti in progetti o società fossili! Spicca l’attivismo di UniCredit nei sotto-settori del gas naturale liquefatto (LNG), dei finanziamenti a chi opera per trivellare nell’Artico, inclusa la tricolore Eni, e nel settore del carbone, a partire dalle miniere di antracite e lignite. Come ormai tutti sanno, la polvere nera che è in assoluto la peggiore fonte di inquinamento e di danno alla salute pubblica.

Carbone, una sporca passione

Proprio sul carbone è iniziato il viaggio di Re:Common nel il gruppo UniCredit, per capire che cosa la banca stava o non stava facendo per far fronte alle crescenti crisi ambientali, in primis quella climatica. UniCredit è il principale finanziatore straniero delle società carbonifere turche, che dal 2014 hanno acquisito asset dalla utility pubblica EUAS e li hanno eserciti usufruendo di una deroga di cinque anni dalle normative ambientali sulle emissioni.

UniCredit ha finanziato IC Ictas, Limak e Bereket Enerji per acquisire le centrali altamente inquinanti di Yenikoy, Kemerkoy e Yatagan nella regione di Mugla, vicino Bodrum, rinomata destinazione turistica nel sud-ovest del paese.

Le case di Yesilbagcilar sono state rese invivibili per evitare che i residenti ci facciano ritorno; nel frattempo le società carbonifere definiscono le viabilità di servizio per l'imminente avanzamento della miniera. FOTO: Re:Common - Dino Bonaiuto
Le case di Yesilbagcilar sono state rese invivibili per evitare che i residenti ci facciano ritorno; nel frattempo le società carbonifere definiscono le viabilità di servizio per l’imminente avanzamento della miniera. FOTO: Re:Common – Dino Bonaiuto

La deroga dovrebbe scadere a fine anno, se il governo guidato da Recep Erdogan, che ha promosso uno sfruttamento intensivo delle miniere di lignite che alimentano gli impianti, non la rinnoverà con un decreto blitz di fine anno. Altrimenti per adeguarsi ai limiti sulle emissioni le società dovranno fare grossi investimenti per il retrofit degli impianti; ma le banche turche sono allo sbando e non ce la fanno più a prestare su ordine politico a società economicamente non redditizie, ma vicine al partito di governo.

Le pressioni degli azionisti critici

Questo il caso della Bereket, ormai sull’orlo del fallimento, a dar retta agli analisti di Bloomberg. Quind,i senza esenzioni il futuro degli impianti potrebbe essere nelle mani di banche straniere, come la UniCredit, anche se in Turchia le perdite della banca sono già elevate al punto che si ventila una riduzione della presenza nel paese con la riorganizzazione dell’intero gruppo attesa per dicembre.
Spostandoci nella UE, UniCredit è un finanziatore chiave della EPH e CEZ ceche, imprese che danno ancora una grande priorità al carbone ed al suo sviluppo. L’elenco potrebbe continuare.

Va notato però che, sotto le pressioni degli azionisti critici – inclusi questa volta tre grossi fondi esteri, guidati da Schroders – il CEO Jean Pierre Mustier si è impegnato a rivedere e rendere finalmente pubblica entro fine anno la policy della banca sul carbone. Come dicono gli inglesi, la prova sarà nel budino, e nelle tracce nere che vi rimarranno dentro: ossia se UniCredit avrà il coraggio di uscire dal finanziamento non solo dei nuovi progetti e clienti a carbone, ma anche dei clienti esistenti, quali i suddetti “baroni” del carbone in Turchia e in Repubblica Ceca. Se sì, il ranking etico della banca un passetto all’insù lo potrebbe fare, finalmente. Ma la strada per non essere una banca fossile sarà ancora lunga e tortuosa.


* L’autore è esponente di Re:Common, un’associazione impegnata in inchieste e campagne contro la corruzione e la distruzione dei territori in Italia, in Europa e nel mondo.