All’Aja si decide il futuro delle climate litigation
Terminate alla Corte internazionale di giustizia le audizioni di quella che potrebbe rivelarsi la più grande climate litigation di sempre. Gli Stati si confermano divisi
Il governo di Giorgia Meloni non ha ritenuto (sic!) di dover intervenire. Ma larga parte del resto del mondo, invece, c’era eccome e si è fatta sentire nelle scorse due settimane all’Aja. Dove presso la Corte internazionale di giustizia (Cig), il più alto organo giurisdizionale delle Nazioni Unite, è andato in scena quello che potrebbe passare alla storia come il più importante caso di climate litigation di sempre.
Tutto si spiega
Cosa sono le climate litigation
Cosa si intende per giustizia climatica? E cosa sono le climate litigation? Scoprilo in questa lezione a cura di Valori.it con A Sud Onlus
Dalla risoluzione Onu allo “spettacolo” dell’Aja
In breve l’antefatto. L’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2023 aveva ufficialmente richiesto alla Corte internazionale di giustizia un advisory opinion (un parere non vincolante, ma di enorme peso specifico) sugli obblighi degli Stati in materia di cambiamenti climatici. Ponendo l’accento in particolare sulle conseguenze, derivanti da tali obblighi, per le future generazioni.
La Cig ha avviato l’iter per elaborare la sua risposta raccogliendo una gran mole di informazioni e pareri. Fra cui i commenti scritti degli Stati che hanno voluto inviarli (più di una sessantina, l’Italia non ha fatto nemmeno questo). Dopodiché ha stabilito che dal 2 al 13 dicembre si sarebbero tenute all’Aja le audizioni pubbliche. Organizzate secondo criteri che più democratici non si può: mezz’ora a testa per ognuno dei quasi cento Stati intervenuti, in rigoroso ordine alfabetico.
È stato un grande spettacolo, che l’informazione mainstream del nostro Paese ha largamente – chissà quanto volontariamente… – “bucato”. Uno spettacolo di enorme interesse in senso assoluto ma soprattutto per gli amanti del diritto. E per chi crede che le climate litigation rappresentino una delle ultime spiagge per spingere, obbligare appunto gli Stati a fare di più e più in fretta contro la crisi climatica.
Sulle responsabilità dell’azione per il clima il mondo è spaccato in due
Cosa si può evincere alla fine di questo tour de force in cui 96 Stati e 11 organizzazioni internazionali (fra cui l’Organizzazione mondiale della sanità, che tra l’altro sostiene il Trattato di non-proliferazione dei combustibili fossili) hanno presentato le loro considerazioni ai 15 giudici della Cgi?
Se si guarda alle posizioni emerse, ancora una volta il mondo è diviso in due. Da una parte chi vede con favore che la Corte operi, per così dire, un giro di vite sugli Stati. Richiamandoli in un modo che sarebbe da considerarsi ultimativo – e quindi assai gravido di conseguenze per le climate litigation in essere e soprattutto per quelle a venire – sul loro obbligo di agire con radicalità e urgenza per proteggere i cittadini e le generazioni future dagli impatti sempre più catastrofici della crisi climatica. Dall’altra, chi ritiene che i trattati e le convenzioni già in essere (compreso l’Accordo di Parigi, che ormai data oltre nove anni fa) bastino e avanzino per obbligare gli Stati a una transizione sufficientemente rapida ed efficace. Cosa che però non sta avvenendo, com’è di solare evidenza.
Se si guarda ai numeri, la si può interpretare in due modi. Leggendo quanto successo all’Aja con la lente “una testa un voto”, la larghissima maggioranza degli Stati chiede alla Corte questo giro di vite. Soprattutto quelli piccoli e vulnerabili, quali la Repubblica di Vanuatu, nel Pacifico, promotrice della risoluzione Onu del 2023. Mentre una minoranza dice che va bene così. Il problema è che la minoranza conta molto di più della maggioranza in termini di popolazione, forza economica, peso politico. Fra quelli che hanno remato contro ci sono per esempio Stati Uniti, Cina e India. I primi due sono le economie più grandi del mondo, i secondi due i Paesi più popolosi del mondo.
Le climate litigation potrebbero giocarsi sui diritti umani
Se si vanno a riprendere i singoli interventi degli Stati, il rappresentante della Cina ha detto che a individuare gli obblighi degli Stati riguardo ai cambiamenti climatici bastano i trattati Onu. Lo stesso hanno fatto gli Stati Uniti, facendo riferimento alla Convenzione quadro sui cambiamenti climatici (Unfccc). Quella da cui sono nate le Cop, dalle quali è nato l’Accordo di Parigi, che però Donald Trump nel suo primo mandato ha rigettato e vedremo cosa succederà a gennaio all’inizio del secondo.
Sulla stessa linea, oltre Cina e India, altri pesi massimi internazionali come Germania, Regno Unito, Australia. In altre parole, i grandi inquinatori di qua, a frenare. Le grandi vittime di là, a chiedere di accelerare. Un po’ lo schema delle Cop, dove tanti piccoli chiedono a pochi grandi di agire. E non è una bella notizia, visti i magri risultati che hanno ottenuto in quasi trent’anni.
Per provare a dirla in punta di diritto, anche se per sommi capi, quello che i grandi inquinatori paiono temere di più è che a entrare in gioco nelle valutazioni della Corte siano i trattati e le convenzioni legati ai diritti umani. Che cioè la crisi climatica e gli obblighi degli Stati al riguardo siano valutati dalla Corte come una questione anche, se non principalmente, di diritti umani. Direzione in cui si sono già mossi, tra l’altro, importantissimi tribunali internazionali quali il Tribunale internazionale del diritto del mare e la Corte Interamericana dei diritti umani.
Il verdetto della Corte arriverà l’anno prossimo. Ma c’è chi crede che già le argomentazioni esposte durante le audizioni abbiano segnato un punto a favore delle climate litigation. E questa è una bella notizia.