Il futuro delle climate litigation in Italia passa dalla Cassazione

Arriva alla Suprema Corte il procedimento contro Eni, MEF e CDP, destinato a influire sulla possibilità di avviare cause climatiche nel nostro Paese

L'avvocato Matteo Ceruti segue dall'inizio La giusta causa

Il 18 febbraio è atteso un pronunciamento della Corte di Cassazione che potrebbe segnare uno spartiacque per le climate litigation in Italia. A rivolgersi alla Suprema Corte sono stati ReCommon, Greenpeace e un gruppo di cittadini italiani nell’ambito del procedimento noto come La giusta causa. Si tratta della causa civile avviata a maggio 2023 per chiedere di accertare le responsabilità di Eni, ministero dell’Economia e delle Finanze e CDP (Cassa Depositi e Prestiti) nei confronti dei cittadini italiani per i danni derivanti dai cambiamenti climatici. «Abbiamo deciso di investire direttamente le Sezioni Unite della Cassazione affinché sia fissato un punto dirimente in modo definitivo prima che la causa prosegua», dice l’avvocato Matteo Ceruti, che segue la causa dall’inizio.

Cosa accadrà il 18 febbraio?

Ci sarà l’udienza in Camera di Consiglio davanti alla Corte di Cassazione, a sezioni unite, che deciderà sul ricorso per regolamento di giurisdizione che abbiamo proposto nell’ambito del procedimento. In estrema sintesi, la Cassazione stabilirà se in Italia ci sia un giudice che può decidere le climate litigation di tipo strategico come questa.

Qual è la posizione delle vostre controparti?

Hanno sollevato tre obiezioni fondamentali. Primo, che la causa non può essere decisa, sebbene sia un tema noto e affrontato anche in sentenze all’estero, perché si tratta di una questione politica, dunque di competenza solo di legislatore e governo. Secondo, che le decisioni prese dalle aziende sono insindacabili, rientrando nel campo delle libere scelte imprenditoriali. Terzo, che essendo il Gruppo Eni una multinazionale con società fuori dall’Italia, il giudice italiano non potrebbe decidere una controversia di questo tipo che vede scelte imprenditoriali compiute appunto anche all’estero. Il nostro auspicio, invece, è che si affermi che sulle climate litigation il giudice italiano può decidere. Perché a nostro avviso: primo, non c’è invasione delle competenze di legislatore e governo; secondo, a determinate condizioni le scelte imprenditoriali si possono sindacare; terzo, è il giudice civile italiano quello che può decidere una controversia riguardante le scelte della multinazionale Eni.

Con tantissime climate litigation all’estero in cui i giudici evidentemente hanno deciso, non sarebbe clamoroso se in Italia si andasse in direzione opposta?

Il profilo su cui puntiamo è che quando sono in gioco diritti umani fondamentali, cioè in presenza di loro violazioni conseguenti ai cambiamenti climatici, la giurisdizione ordinaria possa e debba decidere. Poi si inseriscono ulteriori problematiche. Ad esempio, secondo l’Avvocatura dello Stato che difende il Mef, l’Accordo di Parigi in Italia non sarebbe operativo perché non ci sarebbe una legge che ne ha dato piena esecuzione. Mancherebbe cioè l’individuazione delle prescrizioni dirette agli organi pubblici e ai soggetti privati. A nostro avviso questa posizione potrebbe avere effetti dirompenti sul piano dei rapporti internazionali.

Come vede il futuro delle climate litigation in Italia?

Siamo consapevoli che in particolare le climate litigation strategiche pongono seri problemi processuali. Questi però si possono risolvere anche alla luce della riforma del 2022 degli articoli 9 e 41 della Costituzione italiana, che è una delle ragioni che ci hanno dato maggiore slancio per avviare la causa. La riforma ha infatti indicato la tutela dell’ambiente come obiettivo fondamentale di tutti i pubblici poteri, dunque anche dei giudici. Per cui sono convinto che le azioni climatiche possano avere uno sbocco interessante davanti al giudice civile.

E nel mondo?

La sentenza della Cedu (Corte europea dei diritti dell’iomo) sul caso KlimaSeniorinnen nel 2024, a oggi la vittoria più significativa a livello internazionale per le climate litigation strategiche, potrà dare slancio, come ha dato slancio anche a noi. Perché ha riconosciuto la sindacabilità, davanti ai giudici Cedu e ancor più ai giudici nazionali, di azioni climatiche fondate sulla violazione degli articoli 2 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Anche la sentenza Shell, sia in primo grado sia in appello, ha confermato la giustiziabilità della materia. Cioè che queste azioni possono essere proposte anche nei confronti delle aziende. Sarà importante anche il parere che esprimerà la Corte internazionale di giustizia. Sebbene non vincolante, data l’autorevolezza della Corte avrà un enorme peso specifico sugli obblighi degli Stati in materia di cambiamenti climatici e le conseguenze derivanti da tali obblighi.

Le climate litigation finora hanno coinvolto soprattutto Stati e aziende dai business climaticamente impattanti. Gli attori finanziari saranno i prossimi nel mirino?

A livello internazionale vedo che queste azioni nei confronti di soggetti finanziari si stanno facendo avanti. Credo sia una strada che si dovrà imboccare necessariamente anche in Italia per ottenere dei risultati concreti. Con ReCommon stiamo raccogliendo informazioni ambientali, che è il primo passo verso eventuali atti successivi, su organismi finanziari, investimenti, assicurazioni collegati a grandi progetti con importante impatto climatico. Ma troviamo ostacoli nell’accesso a tali informazioni, nonostante sia disciplinato da specifiche normative e vi siano pronunciamenti di Tar e Consiglio di Stato nei confronti di soggetti finanziari in mano pubblica affinché le rilascino. Da parte del sistema finanziario avvertiamo chiusura e preoccupazione.