«La complicità economica nel genocidio deve avere un prezzo»: parla l’attivista Karem from Haifa
Karem Rohana, noto sui social come @karem_from_haifa, ci parla della complicità delle grandi aziende col governo israeliano.
Questo articolo è parte di una serie dedicata ad approfondire i temi di Unchained – storie di ordinario capitalismo selvaggio, il nostro podcast settimanale. Ascolta qui tutte le puntate!
Karem Rohana è forse il volto più noto della diaspora palestinese in Italia. Figlio di madre italiana e padre palestinese, ha vissuto ad Haifa fino ai tre anni per poi trasferirsi in Toscana. Ha due passaporti, quello italiano e quello israeliano. Nella vita fa il logopedista, ma da un paio d’anni è diventato famoso sui social con il nome @karem_from_haifa. Abbiamo parlato con lui a seguito delle grandi proteste degli ultimi giorni a proposito della cosiddetta «economia del genocidio». Una parte della conversazione è riassunta qui, e alcuni stralci sono parte dell’ultimo episodio del podcast Unchained, intitolato Gaza s.p.a..
Cosa c’entra l’economia con quanto accade a Gaza?
Il concetto di “economia del genocidio” è fondamentale. Ha acceso la luce sul tema la relatrice speciale delle Nazioni Unite Francesca Albanese, che al lavoro giuridico-scientifico ha unito un’eccellente operazione divulgativa, e per questo uso gli strumenti che lei ci ha fornito nel suo ultimo report.
Nel testo di Albanese troviamo una lunga lista di aziende che, di fatto, fanno soldi grazie a questo genocidio. Parliamo di industria bellica, ovviamente, ma non solo: c’è il mondo dei servizi finanziari, informatici, del cosiddetto dual-use. Penso ad esempio al ruolo di Google e Amazon, o ai server Microsoft per gestire le intercettazioni di massa.
L’economia del genocidio di cui parla Albanese è quindi la lista delle aziende presenti nel report?
La special rapporteur stessa ci dice di non prendere il suo rapporto solo come una lista. Cosa intende, o almeno, cosa ci vedo in questa frase? Che dentro quest’economia ci siamo immersi, sono aziende con cui interagiamo inevitabilmente tutti i giorni. E la richiesta di interrompere le attività incriminate non nasce dal semplice «non ci piace ciò che fate». Ci sono obblighi di legge. Dobbiamo creare un’idea di mondo in cui chi è complice di un genocidio, anche attraverso l’economia, deve pagare. Gli Stati e le istituzioni internazionali devono farsene carico – e le piazze di questi giorni ci dicono che il supporto dal basso c’è. Un’industria bellica come Leonardo non può essere boicottata, ma se ne può arrestare il ceo. [Non esiste al momento alcuna indagine a carico dell’amministratore delegato di Leonardo n.d.r].
In che modo invece il boicottaggio può essere uno strumento?
Dove è possibile, per certi prodotti, il boicottaggio è fondamentale. Non puoi evidentemente boicottare dal basso una fabbrica di armi, ma puoi non comprare i datteri israeliani. Esistono le liste per il boicottaggio elaborate dal movimento BDS (Boicott, Disinvest, Sanctions), e da poco hanno anche realizzato delle applicazioni per riconoscere i prodotti legati all’occupazione. Israele stessa, che è poco furba, ce lo suggerisce. Uno spot di qualche tempo fa, rivolto al pubblico israeliano, invitava a comprare prodotti nazionali per sostenere lo sforzo bellico. L’immagine era quella di una serie di prodotti civili che si trasformavano in armi.
Hai citato le grandi mobilitazioni per la Palestina di questi giorni. L’accusa che viene dai critici – anche dal governo italiano – è che siano inefficaci di fronte alla situazione sul terreno a Gaza. Cosa ne pensi?
A seconda di come lo leggi, c’è un fondo di verità nelle parole di Giorgia Meloni. Chiaro che la protesta non cambia direttamente la situazione a Gaza. Ma può cambiare quello che succede da noi, che a sua volta ha ripercussioni sulla Palestina. L’Italia, come gli altri Paesi europei, è una struttura che non solo non ferma, ma finanzia e appoggia politicamente il genocidio. Non si tratta di chiedere a Meloni di mandare una Flotilla statale a Gaza, ma di imporre sanzioni, di non spedire armi e di interrompere le relazioni diplomatiche con Tel Aviv.
Quando il ministro Antonio Tajani dice che «il diritto internazionale conta fino ad un certo punto», ci sta dicendo che la democrazia è morta. Se il diritto non conta più, rimane la legge del più forte. Questo non riguarda solo Gaza, ma anche noi. C’è una classe politica che ci dice che sceglie se e quando applicare il diritto, e può farlo anche ai nostri danni, non solo a danno dei palestinesi.
Scendere in piazza ci permette innanzitutto di contarci, vedere che non siamo soli. Poi, di fronte a manifestazioni così partecipate e continue, il governo si trova a doverti ascoltare. Il giorno dello sciopero anche io, come tanti, ho avuto dei disagi, non sono arrivato in tempo all’ospedale dove lavoro. Ma questo è il punto: fino a che la nostra economia partecipa al genocidio, noi la ostacoleremo.
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