Caos tra le comunità energetiche: il governo taglia il 64% dei fondi Pnrr
Da 2,2 miliardi a 795 milioni: il budget Pnrr destinato alle comunità energetiche è stato ridotto a pochi giorni dalla chiusura del bando
L’investimento del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) sulle comunità energetiche rinnovabili (Cer) sarebbe dovuto essere uno dei pilastri della transizione energetica italiana. Nel 2021 il governo aveva destinato 2,2 miliardi di euro per sostenere la nascita di configurazioni collettive di produzione e autoconsumo, puntando in particolare sui piccoli comuni e sulla partecipazione diretta di cittadini, enti locali e imprese. Era una scelta strutturale, pensata per creare un modello stabile nel tempo e capace di generare benefici economici, energetici e ambientali distribuiti sui territori.
Tre anni dopo, questa promessa si è però scontrata con una decisione che ha spiazzato il settore. Con la sesta revisione del Pnrr, la dotazione per le comunità energetiche rinnovabili scende a 795,5 milioni di euro, con un taglio del 64%. La motivazione ufficiale parla della necessità di rispettare le scadenze europee al 2026, ma la tempistica del ridimensionamento solleva più di un interrogativo.
A rendere la situazione ancora più critica è la modalità con cui la notizia è stata comunicata. Il taglio non è stato annunciato – sulle prime – attraverso un atto formale, bensì tramite un post su LinkedIn del presidente del Gestore dei servizi energetici (Gse) Paolo Arrigoni. Accompagnato da un refuso (“mailstone” invece di “milestone”), diventato in poche ore un simbolo della scarsa cura istituzionale. Un dettaglio apparentemente marginale, ma che racconta bene la percezione diffusa nel settore: un tema strategico per la transizione energetica gestito con strumenti e toni inadeguati.
Come siamo arrivati al taglio dei fondi Pnrr per le comunità energetiche? Una ricostruzione
Dopo lo stanziamento iniziale del 2021, la misura dedicata alle comunità energetiche rinnovabili ha seguito un percorso molto più lento e frammentato di quanto ci si aspettasse. Una volta allocate le risorse e delineati gli obiettivi, la definizione delle regole operative ha richiesto più di due anni. È infatti solo nel dicembre 2023 che viene pubblicato il decreto attuativo Cacer, destinato a chiarire modalità, requisiti e criteri di accesso al contributo Pnrr.
Poi, nell’aprile 2024, il Gse apre il portale dedicato ai Comuni sotto i cinquemila abitanti, inaugurando di fatto la fase operativa. Ma la partenza non è incoraggiante, con poche migliaia di proposte. Così, nel maggio 2025 il governo tenta di rilanciare la misura ampliando la platea dei beneficiari. La soglia dei Comuni coinvolti sale da cinquemila a cinquantamila abitanti, con l’obiettivo di accelerare la diffusione delle comunità energetiche.
L’effetto è immediato: a settembre 2025, quelle che prima erano le domande presentate in un mese diventano ora le domande presentate in un giorno. È in questo contesto che il portale del Gse si inceppa, poiché saturo di domande che non riesce a gestire. A novembre 2025 il sito non dà segni di vita, decine di migliaia di pratiche rimangono ferme in attesa di valutazione. Ecco che il 21 novembre 2025, a pochi giorni dalla chiusura del bando di presentazione delle richieste (fissata al 30 novembre), arriva l’annuncio più controverso. Quello del taglio dei due terzi delle risorse.
La risposta del ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica
Per giustificare il taglio il ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica (Mase) ha diffuso una nota in cui parla di «riallineamento responsabile». Secondo il Mase, infatti, i 2,2 miliardi iniziali erano stati calcolati su un meccanismo diverso: allora si immaginavano prestiti a tasso zero fino al 100% dei costi ammissibili. Quando nel 2023 il decreto Cacer ha trasformato lo strumento in un contributo a fondo perduto con un tetto del 40% imposto dalla normativa sugli aiuti di Stato, il fabbisogno sarebbe sceso di conseguenza.
Il ministero sostiene inoltre che una quota fisiologica delle domande – tra il 10 e il 15% – non supererà l’istruttoria tecnica, rendendo la nuova dotazione da 795,5 milioni sufficiente a coprire le richieste effettivamente ammissibili. Da qui la lettura del taglio come un aggiustamento necessario per evitare la perdita dei fondi europei entro il 2026 e per redistribuire risorse verso altre misure ritenute più urgenti.
Comunità energetiche e Pnrr: i conti non tornano
Ma i numeri raccontano altro. Al 30 novembre le domande superano già il miliardo di euro, lasciando scoperti progetti per circa 400 milioni di euro. Il ministro Gilberto Pichetto Fratin non ha chiarito come verrà colmato il divario, limitandosi a ricordare – come detto – che un 10–15% delle richieste non supererà l’istruttoria. Ma, con il bando ormai chiuso, le Cer escluse non avranno la possibilità di correggere o ripresentare la domanda.
Il Mase evidenzia che attualmente sono state presentate richieste per 2.297,8 megawatt, ben oltre l’obiettivo fissato dal Pnrr di 1.730 MW. Ma anche in questo caso è necessario capire quali e quante Cer saranno effettivamente avviate. Al momento nessun progetto presentato, nemmeno tra quelli già ammessi, ha visto un euro di rimborso. Inoltre, come spiega Gianluca Ruggieri, presidente della cooperativa energetica ènostra, «il superamento di 1730 MW di richieste di installazione, definita come “milestone superata” da Arrigoni nel post LinkedIn, non giustificherebbe lo stop dei fondi visto che non è mai stata identificata come tetto massimo dal Mase ma semmai come soglia minima». Il Mase, nel suo portale, parla di «almeno 1730 MW».
Aumentano i rischi per le aziende e i lavoratori (e si apre la strada dei ricorsi al Tar)
Così, da una parte le aziende che negli ultimi due anni avevano assunto personale, aperto cantieri e anticipato capitali lo avevano fatto contando su una misura che garantiva 2,2 miliardi di euro. Di fronte a uno scenario modificato in corsa – anzi, all’ultimo – molte realtà stanno già valutando la strada del contenzioso, predisponendo ricorsi al Tar.
Dall’altra, i ritardi nei pagamenti, l’instabilità dei fondi e la scadenza ferrea del 30 giugno si traducono «in un aumento dei rischi per i lavoratori». Lo sostiene Giovanni Montamagni, presidente della Cer Vergante Rinnovabile. «I mesi persi per valutare le pratiche (siamo fermi a quelle di luglio, nda) diventano tempo sottratto ai cantieri. Per stare nei tempi, gli installatori dovranno correre. E questo non è mai un bene per le condizioni e la sicurezza di chi lavora».
Una scelta di «buon governo» o un’occasione mancata per la transizione energetica?
La vicenda delle Cer va oltre la semplice riduzione di una voce di spesa: è un test sulla credibilità delle politiche pubbliche per la transizione energetica. Il taglio del 64% è un segnale politico che ha colto di sorpresa l’intero settore. E ha incrinato la fiducia di migliaia di famiglie, imprese e amministrazioni locali che avevano investito su una misura considerata stabile.
L’Italia aveva a disposizione 2,2 miliardi per sostenere l’autoconsumo collettivo e un modello energetico partecipativo. Ne userà meno di 800 milioni. «Il resto è stato spostato altrove, mentre cittadini e territori erano pronti a investire», conclude Montamagni. «È difficile definire questa scelta “buon governo”, come sostiene il Mase. Somiglia piuttosto a un’occasione storica mancata, proprio nel momento in cui il Paese aveva dimostrato di voler puntare davvero su un modello più equo, distribuito e condiviso di produzione dell’energia».
Non tutto è perduto. Come ricorda ancora Ruggieri, «le comunità energetiche non finiscono il 30 novembre: si potrà continuare a fare impianti e costituire Cer fino alla fine di dicembre 2027, fino al raggiungimento dei 5 GW, che sono il tetto massimo previsto. Successivamente vedremo se verranno predisposti altri meccanismi di supporto. Il 30 novembre termina solo il bando per il finanziamento del 40% degli impianti».




Nessun commento finora.